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Una teoria per i tributaristi

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Home Controlli e contenzioso Interdipendenza tra "fatto" e "diritto" in relazione alla sensibilità dei giudici sulla determinazione tributaristica della ricchezza
Interdipendenza tra "fatto" e "diritto" in relazione alla sensibilità dei giudici sulla determinazione tributaristica della ricchezza PDF Stampa E-mail
Controlli e contenzioso
Scritto da Raffaello Lupi   
Sabato 18 Settembre 2010 20:19

In un Blog di postilla.it c'è chi ridimensiona ogni errore dei giudici tributari come "inadeguata comprensione di disposizioni legislative" che i solerti magistrati avrebbero dovuto conoscere per virtù dello spirito santo. E come se la conoscenza perfetta di queste disposizioni garantisse l'equilibrata soluzione dei problemi. Quanto abbiamo sotto gli occhi ogni giorno ci dimostra invece, ove ce ne fosse bisogno, che la legislazione e gli altri materiali non sono la sedimentazione in terra di una sapienza superiore sovrumana ispirata dal principio di autorità; tra "fatto" e "diritto" ci sono invece le interdipendenze e le sfumature tipiche del sapere umanistico sociale. Nel senso che la legislazione su un certo settore della convivenza sociale viene compresa nella misura in cui l'interprete ha dimestichezza con quel settore della convivenza sociale. Si ragiona secondo quanto ci appare sensato, rispetto al nostro ruolo e al nostro background, si individuano i punti oscuri su cui serve conforto legislativo, lo si cerca. Non serve a nulla vedere la legislazione mineraria senza avere un'idea delle miniere, quella alimentare senza una idea di vegetali e animali, quella petrolifera senza una idea di idrocarburi: la legislazione tributaria serve a guidare nella determinazione della ricchezza ai fini fiscali, e se non si ha una idea di questa funzione anche conoscere la legislazione in rime baciate, saperla tradurre in greco con sottotitoli in giapponese antico non serve a una beatissima mazza. Senza questa dimestichezza con quello che la legge deve regolare altro che iura novit curia una di quelle tante espressioni agitate dagli avvocati come se fossero formule magiche, incantesimi e controincantesimi. Altro che "narra mihi factum tibi dabo ius"  (al tibidabo al massimo si va a ballare...). Le disposizioni consultate dal giudice interagiscono con la sua idea latente, gliela fanno modificare, mettere a fuoco, magari in una direzione sbagliata..poi messa a fuoco l'idea si legge un'altra disposizione o si riceve un altro argomento che ci fa riflettere, magari mantenendo la soluzione, ma motivandola in modo rafforzato, o diverso...è una dialettica lunga tra "fatto" e "diritto", che i giudici interrompono quando "sono tranquilli", anche in relazione al tempo disponibile  ed ai carichi di lavoro. Qualcuno chiama questo processo "precomprensione" (Gadamer , Esser, in libri abbastanza poco leggibili, comunque l'intuizione è alla portata di chiunque rifletta sui nostri schemi di ragionamento, secondo quella che indico come "accessibilità" del sapere umanistico sociale. ...Nel nostro caso il giudice ha una idea della convivenza sociale...sa che il salario direzionale non è reddito....equipara il salario direzionale dell'amministratore-socio alla remunerazione dell'imprenditore, e trova sensato che non sia deducibile....è proprio il sospetto che non ci sia un impoverimento della società a favore del socio...ha capito benissimo la cassazione che non è l'acquisto di servizi o di beni di consumo....ha usato delle categorie di ragionamento civilistiche secondo cui il socio amministratore, magari unico, equivale alla figura dell'imprenditore...non c'è drenaggio di ricchezza "perchè è sempre lui". E se Tributario non è una materia, un tempo era un tentativo di materia, ora è una presa in giro...quindi al professore lupi non piace essere presentato come docente di diritto tributario.....ma a riflettere in certi ambiti sono rimasti solo gli specchi. E' questo l'epitaffio del tributario, che non è decaduto, perchè non ha mai tirato fuori un ragno da un buco, però un tempo c'era entusiasmo e si rifletteva, attorno a falsi problemi, ma si rifletteva. Ed era naturale che in assenza di risultati, col tempo ne passasse la voglia, l'entusiasmo etc.. Man mano si è data una immagine contorta del "sapere", come esposizione di materiali, come ricerca di qualcuno che ha detto qualcosa, come mortificazione della riflessione, a partire dall'oggetto economico della tassazione..e quella minoranza degli operativi che volevano studiare e avrebbero potuto portare la riflessione negli uffici, nelle commissioni, nei mezzi di informazione, negli ordini professionali, sono rimasti contaminati, disorientati, mentre gli altri allegramente usano i confusionari stereotipi dell'accademia per costruirne di propri nel modo che più gli sembra sensato o conveniente nel caso singolo. Piano piano a riflettere ci restano solo gli specchi....non solo nell'accademia, ma anche tra gli operatori. .

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