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Una teoria per i tributaristi

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Home Tax & Media Robot tax : hanno un senso le imposte luddiste?
Robot tax : hanno un senso le imposte luddiste? PDF Stampa E-mail
Tax & Media
Scritto da Raffaello Lupi   
Lunedì 23 Settembre 2019 07:39
 
 
Una buona cornice di  un convegno come questo potrebbero essere i collegamenti tra “automazione”, via via sempre più evoluta,  e “intelligenza artificiale”. Né per dilungarsi su quanto essa restituisca, rielaborata da sistemi esperti, una massa di informazioni immesse dagli uomini. Non è neppure il caso di soffermarsi sulla scienza come mito, nuova metafisica dove l’uomo ricrea il pensiero, la mente, in prospettiva i valori, in pratica se stesso ( 1 ). Anche l’intelligenza artificiale è una “fonte di senso”, che non rileva in sé, ma per il numero di gente che “ci crede”, come ha fatto per tante altre fonti di coesione sociale.
 
Abbandoniamo queste prospettive metafisiche, passando al gretto piano economico-tributario, della costruzione della “catena del valore”, e della sua tassazione. Bene, qui l’intelligenza artificiale equivale ad un macchinario come gli altri, dalla ruota al telaio meccanico. In altri termini, essa aiuta a produrre di più a costi più bassi, imponendo però alla modalità produttiva alcuni condizionamenti di cui dirò subito. Prima di tutto, come tutti i macchinari e gli impianti, anche l’intelligenza artificiale “costa”, perché è frutto di ricerche scientifico-tecnologiche.
 
Il reddito di quelli che “inventano” o “sviluppano” l’intelligenza artificiale viene sottratto dal (maggior) reddito prodotto da quelli che la utilizzano per la produzione, andando al consumo. E’ una “filiera del valore” che in molti settori oggi si sposta sulla ricerca e sulla tecnologia rispetto alla fase della produzione. Quest’ultima tende insomma a essere una “commodity”, a basso valore aggiunto, rispetto ad altre produzioni, come quelle alimentari, dei prodotti per la persona, o dei trasporti, in cui il ruolo della prestazione materiale resta molto importante, anche se gli inserimenti di intelligenza artificiale sono notevoli (fino all’aereo che grazie all’intelligenza artificiale decide di precipitare nonostante il parere contrario dei piloti!). In ogni filiera produttiva, insomma, si autoproduce una particolare divisione del valore aggiunto tra le varie funzioni che vi contribuiscono, produzione, commercializzazione, marketing, e l’intelligenza artificiale può variamente inserirsi in tutte queste, mentre non mi sembra possa considerarsi una funzione come tale (modifica tutte le funzioni, ma non è essa stessa una funzione).
 
Parlando di Robot tax vale quello che vale quando si parla di fiscalità di vari settori economici, come l’agricoltura, il turismo, i beni culturali, il  web, le professioni, i fabbricati, il lavoro, etc. Bisogna evitare di leggere il presente con gli occhi del passato, quando le basi di commisurazione delle imposte erano individuate in modo forfettario valutando i beni o diritti sottostanti, come le terre coltivate, le merci per i consumi (chi siete cosa portate un fiorino), le attività produttive, come i mulini, le botteghe, le locande, le case di tolleranza, o anche il tenore di vita; di essi si stimava “a occhio” la redditività, precisandola anche in funzione di una valutazione di importanza sociale, tassando di meno l’agricoltura, perché necessaria, di più il fumo il caffè o le case di tolleranza, di meno l’industria innovativa socialmente utile. Bene, occorre stare attenti a non applicare ai “robot” questa logica della “tassazione delle cose”, tassate in via patrimoniale come “potenzialità di reddito” e approvazione disapprovazione sociale. Oggi comunque infatti la tassazione è tutta “diretta” (anche l’IVA è un’imposta diretta sul consumo, questa me la concedo in un consesso tecnico, perché lo misura direttamente in base ai corrispettivi contrattuali). In questo contesto non ha senso parlare di tassazione dei robot, di tassazione del  web tax, di tassazione dell’agricoltura o del turismo, ma delle astrazioni economiche documentalmente rilevate e ad esse collegate. Questo non impedisce l’uso estrafiscale dell’imposta, per orientare i comportamenti, oltre che per finanziare la spesa, come preferisco dire anziché parlare di imposte pigouviane.  In un contesto di tassazione documental contabile si potrebbero banalmente  incentivare o disincentivare alcuni “consumi tecnologici”, tipo alcuni alienanti giochi online. Dal punto di vista dei redditi  si potrebbe tassare maggiormente l’utile di imprese tecnologiche, anche rappresentato da brevetti, come si fece con la stravagante robin hood tax sulle società petrolifere (dichiarata incostituzionale) oppure interferire, luddisticamente,  sulla deduzione di investimenti in macchinari. Prima di tutto bisogna mettersi d’accordo con i recenti incentivi alla digitalizzazione , che vanno in senso contrario. Poi far valutare gli investimenti sotto il profilo della creazione o distruzione di lavoro appare dirigistico e ricorda un aneddoto di Milton Friedman. Visitando un cantiere chiese perché gli operai usavano pale e picconi per scavare un canale, anziché ruspe e quando gli risposero che serviva a dare posti di lavoro, rispose: “Ah, credevo che vi servisse un canale. Ma se volete più posti di lavoro perché non date agli operai i cucchiai al posto delle pale?”. Qui mi viene da fare il paragone col ritorno alla contabilità tenuta a mano! Quest’esempio rende l’idea della fallacia dell’idea marxista del valore-lavoro anziché come attitudine a soddisfare bisogni, e dell’interpretazione della moderna produzione di serie con attrezzature mentali radicate nell’era agricolo-artigianale. Il valore non è insomma quello del lavoro , ma quello dell’organizzazione in funzione di un obiettivo, tenuto conto dei costi interni ed esterni. Qui la domanda è se il licenziamento,  a causa di tecnologie che risparmiano lavoro, è davvero un’esternalità negativa oppure se il sistema complessivo può impiegare in modo più efficiente quei lavoratori. Se si pensa che lo scopo delle aziende è creare redditi, cioè  “soddisfare bisogni”  la risposta è chiara. Il reddito è quello che  si fa, l’obiettivo che si raggiunge, non quello che si eroga, come salario, profitto o interesse. Io non credo alla bacchetta magica dell’intelligenza artificiale, ma se scoprissimo davvero la bacchetta magica , per soddisfare bisogni senza fatica, oppure la macchina dell’eterna giovinezza, dovremmo forse nasconderla o tassarla, per salvaguardare il lavoro di medici, infemieri, estetisti e addetti alle pompe funebri?
 
Il discorso però non finisce qui perché si sposta sulle “filiere” di tassazione e sui vantaggi comparativi tra un gruppo sociale e l’altro.  Finchè la produzione dipende da abilità individuali,  il miglior falegname o sarto batte gli altri, e loro sono spinti dal bisogno a imparare altre cose. Qui il protezionismo e il dirigismo salvaguardano l’inefficienza, quindi rendite di posizione. In una società complessa e interdipendente, fatta di organizzazione e di capacità, certi robots esogeni possono distruggere la capacità organizzativa di una determinata società, anche grazie alla loro immediata migliore competitività di mercato. Qui non è detto che “chi perde il lavoro” impari a fare qualcos’altro, ma può diventare semplicemente un disadattato, perchè in una società complessa la concorrenza non crea automaticamente alternative, come nell’era artigianale, semplicemente perché le alternative non sono individuali (imparo un diverso mestiere) ma sono collettive, “di gruppo”, cioè riguardanti le aziende in senso pluripersonale, dove si creano difficili equilibri per “fare cose assieme”. Se una tecnologia importata dall’esterno distrugge alcune produzioni e alcune capacità di un certo assetto produttivo, possono giustificarsi, nel breve periodo, disincentivi destinati a dare alle organizzazioni produttive il tempo di adeguarsi, prima di essere spazzate via, mantenendo il loro “saper fare”.  Ma quest’azione disincentivante riguarda più le imposte sulle merci o i dazi, come quelli per il dumping sociale verso paesi illiberali, disciplinati nel loro "nazionalismo competitivo". In attesa di imparare a produrre e gestire robot, un paese protegge il proprio apparato produttivo contro una concorrenza che usa robot. Il che vuol dire incentivare la ricerca tecnologica e non scoraggiarla, come oggettivamente finiscono per fare le idee sulla robot tax. Se si guarda bene, tornando alla sopra indicata filiera della formazione del valore, tante vicende (apple) confermano già la difficoltà di far pagare ai produttori di intelligenza artificiale e robot le imposte normali. Questo perché la filiera è sbilanciata sulla ricerca e “le idee” , i beni immateriali intesi come “know how” e la produzione è maggiormente fungibile. Ovviamente i costi di ricerca sarebbero coperti, ma l’avviamento industriale così creato può corrispondere a produzioni ovunque collocate, gravate da pesanti royalties , inconcepibili per attività tradizionali , dove il peso della produzione nella filiera del reddito è maggiore. Siccome il know how è facilmente delocalizzabile in funzione di convenienza tributaria l’elevato peso dei saperi nella produzione già mette a rischio le imposte ordinarie, rispetto a dove sono ad esempio le fabbriche , le reti di telefonia, servizi o trasporto. In buona parte , più è intenso il fattore tecnologico, minore è la correlazione spazio-temporale tra costi e ricavi, ed è quindi possibile imputare alla produzione maggiori costi di ricerca scientifico-tecnologica. A parte le battaglie difensive indicate sopra, entro certi limiti giustificate, la battaglia vera non è quindi quella per ottenere una maggiore tassazione, ma per non perdere la tassazione ordinaria.
 
 
 
1 ) Per una cornice più ampia del mio pensiero, del resto “in progress” Lupi “Studi sociali e diritto” reperibile in rete attraverso il @raffaellolupi (passaggi analoghi, ognuno raggiunto per proprio conto in Jared Diamond, Noah Harari , da Sapiens, da Animali a Dei, e Homo Deus Breve storia del futuro e chissà quanti altri ????)

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