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Home Tassazione societaria L’infortunio della cassazione sui compensi agli amministratori conferma la mancanza di una teoria della tassazione attraverso le aziende
L’infortunio della cassazione sui compensi agli amministratori conferma la mancanza di una teoria della tassazione attraverso le aziende PDF Stampa E-mail
Tassazione societaria
Scritto da Raffaello Lupi   
Mercoledì 01 Settembre 2010 19:22

Il motto di Dialoghi Tributari è che le istituzioni vanno spiegate, prima di essere criticate, e questo vale anche per un infortunio clamoroso come quello alla base dell’ordinanza 18702 del 2010 con cui la Cassazione ha assimilato i compensi agli amministratori a quelli erogati per l’opera dell’imprenditore, considerandoli quindi fiscalmente indeducibili. E’ una sentenza dove la riflessione esiste, è percepibile, e purtroppo è anche percepibile l’equivoco in cui è caduto l’estensore. Però è una riflessione dove si capisce subito dov’è l’errore, ed è molto più inquietante che nessuno dei commentatori l’abbia chiamata, come merita, “infortunio”. Il Sole 24 Ore equivocamente titolava “indeducibili i compensi ai manager” già portando fuori strada rispetto all’oggetto dell’ordinanza, e poi si esibiva in chiose giuridico interpretative, come se ce ne fosse bisogno per spiegare l’abbaglio. Che nessuno spiegava , che nessuno scomponeva nei suoi passaggio, cioè la fuorviante equiparazione tra amministratore e imprenditore individuale. Nessuno ha detto alla cassazione perchè ha sbagliato sul piano del senso economico, mentre qualcuno ha citato le disposizioni sulle società di persone, di cui il giudice non si è accorto. Neppure i commentatori hanno indicato, in due parole, la ragione dell’indeducibilità dei compensi all’imprenditore individuale e della deduzione di quelli agli amministratori. Ed è normale che sia così in un ambiente in cui la determinazione della ricchezza ai fini tributari è un oggetto misterioso, e dove le scelte legislative sul tema non si spiegano con le simmetrie tra soggetti diversi, tipiche della tassazione attraverso le aziende, ma con ineffabili ragioni di gettito. La sentenza è stata sin troppo presa sul serio, e nessuno ha scritto che è un infortunio dovuto alla fretta (depositata il tredici agosto…non so se mi spiego…), in una materia dove si processa troppo, come scriviamo da tempo su dialoghi. In una materia dove ci sono troppe parafrasi e troppi sproloqui, almeno la sentenza è chiara nel percorso concettuale che ha portato all’abbaglio. Spaventa di più che nessuno abbia individuato l’abbaglio. La sentenza è un piccolo infortunio di un giudice oberato di cause, spesso inutili, e questo fa capire bene il clima in cui è maturata la tanto vituperata legge “ad aziendam” sulla definizione delle cause pagando il 5 percento dell’imposta. Le ragioni per cui la pressione sulla cassazione è eccessiva non dipendono dalla cassazione, ma da un diritto tributario “senza testa”. Se ci fosse una revocazione per evidente errore di diritto credo che lo stesso estensore della sentenza sarebbe il primo a proporla. Il problema è più grande di una svista di un giudice per altri versi attento, e riguarda la mancanza di sbocchi della via processuale. Dove l’unico “giusto processo tributario” è quello che si celebra il meno possibile”. Ma tutta l’accademia vede il diritto tributario come “due parti che litigano col giudice che decide a chi dare ragione”, ed ha fatto ostruzionismo, in nome di vaghi fantasmi come l’indisponibilità del credito tributario e una imprecisata vincolatezza, rispetto all’accertamento con adesione. Sono questi i veri mostri permanenti e giganteschi, che fanno apparire innocui anche piccoli (salvo che per il contribuente interessato) palesi infortuni come questo.

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