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Home Tassazione societaria deducibilità limitata interessi passivi
deducibilità limitata interessi passivi PDF Stampa E-mail
Tassazione societaria
Scritto da Raffaello Lupi   
Giovedì 20 Agosto 2009 00:00
L'abbassamento dei tassi di interesse forse ha attenuato il problema dei limiti alla loro deducibilità, su cui interverremo con un prossimo articolo su Dialoghi 5-2009 . Tremonti lascia le limitazioni di Visco alla deduzione degli interessi passivi, nel quadro di interventi minimali ad alta resa mediatica, senza tocchicchiare qua e là, come avvenne nel 2006-2008, con un effetto boomerang in termini di consenso. Non sappiamo quanto pesi il differimento/rinvio della deduzione degli interessi passivi sui conti delle società di capitali, ma intanto è bene che gli studiosi discutano, perchè loro devono pensare alla riflessione, non al consenso, come i politici. Certo che la limitazione  è fortemente asimmetrica, perchè vi corrisponde una piena tassazione degli interessi attivi in capo al percettore.  Non si capisce poi la finalità del provvedimento sul piano della determinazione della capacità economica, quando ci dovessero essere imprese finanziate largamente a debito, ad esempio nel settore delle opere pubbliche, magari col project financing. Il problema è sempre quello che si poneva la capitalizzazione sottile, pace all'anima sua, cioè la facilità di spostare reddito grazie alla deduzione degli interessi passivi, alla volatilità dei capitali. Andava benissimo la prima versione della Thin cap, che non si applicava quando gli interessi confluivano nell'imponibile di un percettore impresa residente, a tassazione ordinaria. Poi è arrivata la sentenza Lankhorst della CGCE , che trovava questo sistema troppo brutalmente discriminatorio, e la situazione è sfuggita di mano, per la solita carenza di teorie della tassazione analitico aziendale . Il governo del 2007, dopo i suggerimenti della commissione biasco, tanto per il gusto di far qualcosa, ha limitato tout court la deduzione degli interessi passivi, in modo indiscriminato, per le società di capitali in genere. Bisognerebbe vedere, con le dichiarazioni 2008, che arriveranno nell'autunno 2009, qual'è stato l'effetto  economico, concreto, forse meno devastante di quanto si pensi. tanto le piccole società di capitali flessibili spesso "tolgono da sopra",  i ricavi e tanti saluti...Le grandi organizzazioni sono poche, contano come il due di coppe anche perchè vanno avanti in ordine sparso, e forse nel complesso stanno dentro ai limiti di deduzione. Tanto è vero che nelle richieste di confindustria servizi innovativi, indicate in un altro blog del sito, mi pare che la disciplina degli interessi passivi non sia oggetto di alcuna critica. Forse qualche grande carrozzone aziendale, sull'orlo della decozione (vedi linee aeree), ha qualche problema, ma ha da pensare a ben altro che la purezza concettuale nella determinazione della capacità economica. Insomma, non è un problema politico prioritario, per chi pensa al consenso elettorale, ma per gli studiosi è un tema su cui riflettere, nei termini che seguono, e che riprenderò su dialoghi 5-2008. 1) la tematica degli interessi passivi riguarda il regime giuridico della capacità economica dichiarata, ed in specie gli elementi negativi, quindi non ha nulla a che vedere con l'occultamento, ma al limite con l'elusione 2) Checchè ne dicano gli economisti, specie l'amica Silvia Giannini, principale ispiratrice della relazione della commissione Biasco su questo ed altri punti, escluderei una discriminazione tra capitale proprio e capitale di prestito: in un mondo chiuso il capitale proprio è al netto dei costi, mentre quello di prestito esprime un costo, ed uno spostamento di imponibile dall'imprenditore al finanziatore, con un gioco a somma zero 3) il problema, riguarda gli interessi passivi cui corrispondono interessi attivi in altre giurisdizioni 4) giustamente la corte di giustizia considera discriminatoria a danno degli stranieri la limitazione pregiudiziale agli interessi verso l'estero, ma sarebbero stati possibili schemi antielusivi, come quelli che oggi si stanno realizzando in materia di CFC. Ad esempio se io ho soldi in Italia, ci costituisco una società irlandese che poi mi ripresta i soldi a fronte di un interesse attivo tassato in Irlanda al 12 percento e deducibile in Italia al 30 percento, sto usando le libertà comunitarie di stabilimento o sto andando a fare shopping dei regimi fiscali più convenienti per una capacità economica che non ha nulla a che vedere con l'irlanda, visto che i soldi hanno provenienza italiana e destinazione idem?  In che misura le libertà di stabilimento legittimano operazioni circolari, senza altro obiettivo che andarsi a godere il regime fiscale irlandese? Condizionare la deduzione degli interessi passivi verso creditori esteri alla provenienza effettiva dall'estero delle relative risorse, e alla loro tassazione nel paese di destinazione, potrebbe essere digerito dalla corte di giustizia. Per le piccole imprese, che non hanno le masse critiche per impostare simili arbitraggi, si potrebbe liberalizzare del tutto la deduzione.

Commenti

avatar mauro
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Dalla tua esposizione, Raffaello, si evidenzia molto bene come, la stratificazione normativa, dovuta al susseguirsi di scelte fiscali, fra loro incongruenti, oltre che la contemporanea presenza di diverse mission, affidate, talvolta, alla norma fiscale, possano, progressivament e, far allontanare un provvedimento normativo dalla sua coerenza iniziale. La legislazione degli ultimi anni relativa alla disciplina degli interessi passivi nel reddito d’impresa ne è un chiaro esempio. Occorre, forse, partire, dall’organica e coerente disciplina della DIT, (che interveniva, in primis, in modo, fra l’altro, tecnicamente corretto, sul fronte indebitamento, per giungere solo indirettamente a condizionare, eventualmente, l’ammontare degli interessi dedotti a bilancio), per passare, poi, alla farraginosa e quanto mai complessa “thin cap”, giungendo, infine, alla pessima disciplina ROL. Questi ultimi due provvedimenti, mi pare di poter dire, hanno risentito negativamente, a differenza della dual incom tax, delle diverse finalità loro proprie: antielusive, di contrasto all’erosione della base imponibile e di politica economica. E’ vero, lo strumento tributario può essere utilizzato anche per obbiettivi extrafiscali, quali il rafforzare la patrimonializza zione delle imprese ma questo non dovrebbe mai portare a distorcere la primaria e fondamentale finalità della norma tributaria che è quella di determinare correttamente la capacità economica dei contribuenti. Infatti, la disciplina della deducibilità degli interessi passivi dal reddito d’impresa mette in chiaro risalto l’importanza delle determinazioni quantitative, analitico – aziendali, seppure adattate alle logiche tributarie. Sappiamo tutti, essendo questo un “concetto sociale”, d’uso comune, che il “costo” dei finanziamenti è espresso dall’interesse il quale, se relativo ad investimenti inerenti l’attività d’impresa, assume la fondamentale caratteristica della deducibilità fiscale. Già questo, forse, potrebbe bastare, ma la determinazione analitico aziendale, si connota poi, come insegni tu, Raffaello, di quelle specificità proprie delle logiche simmetrico tributarie. Ne sono un esempio, proprio in tema di interessi passivi, la loro indeducibilità integrale, se specificamente inerenti a componenti positivi di reddito “non tassabili”, oppure, di converso, la non deducibilità per la parte proporzionale a “ricavi” esenti od esclusi dal reddito fiscale. Lo stesso dicasi per l’afferenza a componenti dell’attivo di bilancio i cui “frutti” vengono esclusi dalla base imponibile. Questi criteri trovano, come detto, giustificazione nelle logiche di coerenza fiscale. La “disciplina ROL”, invece, pare discostarsene ed è difficile, veramente, ricercare una sua giustificazione sistematica, se non individuare, invece, solo un maldestro tentativo di contrasto all’erosione fiscale ed un indiretto sprone al ricorrer meno all’indebitamento da parte delle imprese, alterando, però significativame nte la corretta determinazione della capacità economica. Una semplice osservazione: la “competenza” fiscale degli interessi è in funzione del tempo della loro maturazione, imporne, quindi, una deduzione rinviata agli esercizi successivi solo perché il loro ammontare supera la “franchigia” del 30% del risultato operativo lordo, introduce una forte asimmetria od incoerenza fra norme diverse che disciplinano la competenza dei componenti positivi e negativi del reddito d’impresa. Ben diversa ed ampiamente giustificabile, da un punto di vista di logiche fiscali, è ad esempio la disciplina avente ad oggetto il rinvio ad esercizi successivi della deduzione di spese di manutenzione. Ritornando, allora, ai principi che possiamo rinvenire dalle determinazioni analitico aziendali, sembrerebbe più opportuno, nell’analisi dei fenomeni finanziari, guardare non solo ai componenti del conto economico, ma anche a quelli dello stato patrimoniale, analizzato, quest’ultimo, nella sua configurazione, appunto, finanziaria che contrappone le FONTI (passivo) ai correlativi IMPIEGHI (attivo). Individuandosi correlazioni generiche o specifiche dei finanziamenti ai relativi investimenti, così come l’inerenza di questi ultimi all’attività d’impresa. Un semplice esempio, che rende l’idea, nell’ambito, principalmente, delle società di persone ed imprese individuali, (ma non solo), può esser quello della presenza di finanziamenti a fronte di un attivo circolante composto anche da crediti verso soci per prelievi effettuati durante l’esercizio ben maggiori all’ammontare del patrimonio netto disponibile. In tal caso il finanziamento, specie se generico, concorre, sicuramente anche ad impieghi estranei all’esercizio dell’impresa. Ben più coerente, come accennato, sotto questo profilo, era la disciplina DIT: non distorceva la determinazione della capacità economica, che avveniva a monte, cioè prima della sua applicazione. Inoltre, essa, concretizzava la sua funzione extrafiscale di strumento agevolativo, mettendo ben in evidenza la dimensione finanziaria del patrimonio (in senso lato) d’impresa, premiando, appunto con tassazione duale di favore, la parte di reddito figurativo, estrapolabile da quello globale, imputabile, da un punto di vista logico, al “capitale proprio” quale componente, a sua volta, che concorre a formare la massa complessiva delle fonti. Allora, si può anche concludere, che solo in quest’ottica potrebbe essere di qualche utilità, forse, lo spunto, offerto dagli studiosi di scienza delle finanze, volto ad una discriminazione fra capitale proprio e capitale di terzi. Senza non dimenticare, poi, che l’analisi delle concrete esperienze delle diverse disposizioni sopra esaminate, DIT e Thin Cap, in particolare, porta ad evidenziare un “fallimento” del loro intento extra fiscale (nonostante la pregevolezza tecnica della prima), tanto per cui, l’attuale provvedimento in vigore (ROL), data la sua criticabilità sul versante dell’influsso negativo nella determinazione della capacità economica, non potrà di certo basare le proprie fortune su sperati, quanto, come visto, irraggiungibili, risultati dal lato delle politiche economiche miranti al rafforzamento della capitalizzazion e delle imprese.
avatar stefano.palestini
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La teoria economico- finanziaria fin dagli anni ’50 con Modigliani e Miller ci ha spiegato che il valore della società per il socio è perfettamente indifferente alla sua struttura finanziaria cioè la proporzione tra il debito ed il capitale proprio, almeno fino ad un certo livello di indebitamento superato il quale emerge il rischio di uno squilibrio finanziario patologico.
L’asserzione veniva dimostrata spiegando che un socio (diciamo per semplicità persona fisica) poteva acquistare una società interamente finanziata con capitale proprio impiegando per il 50% i propria risparmi e per l’ulteriore parte prendendo denaro in prestito da una banca , in questa maniera si otteneva l’identico risultato della stessa società finanziata per metà da capitale proprio e metà tramite debito. Quindi se il socio può replicare in capo a se stesso la struttura finanziaria preferita , quella realmente esistente nella società diviene indifferente (chiaramente esistono dimostrazioni analitiche nei libri di finanza). Nella sostanza se produco meno utili perché debbo “servire” il debito è anche vero che il socio ha investito un importo più basso per finanziare a titolo di capitale proprio la società
Ma , ed è qui che giunge il nostro interesse, ciò è vero solo se in capo al finanziatore (socio o banca) vi sia una coerente tassazione degli interessi attivi in capo alla società ed al socio . Nella versione originale del primo teorema di M&M si ipotizzava assenza della tassazione, ma è facile dimostrare che l’ indifferenza della struttura finanziaria si ottiene anche con una medesima tassazione in capo alla società e socio (vedere la tabella sotto che spero sia leggibile: il rendimento complessivo è uguale in caso di imposte rendimento complessivo di A uguale a quello di B e lo stesso senza imposte , rendimento complessivo di C guale a quello di D).
Invece se gli interessi attivi in capo ai soci sono tassati in misura inferiore rispetto alla deducibilità degli interessi passivi in capo alla società i dividendi sono indeducibile dal reddito d’impresa, il solo incremento dell’indebitamento porterebbe ad un aumento del valore della società, almeno fino a che non emergesse concretamente il rischio del dissesto economico finanziario. Si tratterebbe di una sorta di sovvenzione fiscale al debito che non è presente nella remunerazione del capitale proprio. Nella tabella sotto è facile constatare che -nel caso limite di assenza di imposte in capo al socio - basta aumentare il debito per avere un incremento del rendimento (rendimento complessivo F > E).
Quindi da ciò si dovrebbe desumere una certa simmetricità del trattamento fiscale degli oneri finanziari, che fa da corollario alla neutralità sostanziale dell’operazioni quindi o “deduco e tasso” oppure “non deduco e non tasso” .
Questo ripasso di economia – finanziaria dovrebbe aiutare ad eliminare qualsiasi pregiudizio sul debito e sugli interessi passivi e dovrebbe aiutarci a comprendere i comportamenti degli operatori economici inquadrando il trattamento degli interessi nell’ambito del coordinamento della tassazione tra società e socio con particolare attenzioni agli abusi/elusioni che non sono di facile individuazione, anche perche non ne è u indizio l’elevato livello di debito.
La realtà italiana caratterizzato da un accesso al credito basato più sulle garanzie personali dei soci che sulla autonoma capacità delle aziende , rende - da un certo punto di vista - indifferente finanziare la società o il socio, visto che il rischio ricade sempre su quest’ultimo, che unitamente ad una mite tassazione degli interessi attivi in capo alle persone fisiche (tra il12,5% e il 27%) , ha fatto preferire l’ indebitamento delle società , consentendo la deducibilità degli oneri finanziari al 27,5% (in passato fino al 37, ma se torniamo indietro fino all’ILOR arriviamo ad oltre il 50%) per trarne un lecito arbitraggio tra tassazione delle due diverse tipologie di reddito. Questo ha spinto le società a ristretta base societaria ad essere sempre state restie a distribuire i dividendi (magari servirebbe una conferma empirica), perché spesso la remunerazione dei soci avveniva tramite il pagamento degli interessi sui finanziamenti a titolo di credito ( essendo trascurabile l’apporto nel capitale permanente) e tramite salari piuttosto che consulenze per la loro opera prestata all’interno della società o ancora compensi per le cariche societarie.
Quindi in presenza di elevati oneri finanziari (o elevati livelli di stock del debito) è difficile distinguere se questi derivano dai comportamenti sopra descritti o da operazioni elusive latu sensu (operazioni circolari) .
Infine volevo concludere esprimendo alcune perplessità sulle considerazioni in Dialoghi nr. 5 sul fatto che gli oneri finanziari interni non sono computati nei calcoli del PIL , credo che questa affermazione non possa essere traslata sulla rilevanza fiscale degli oneri finanziari senza qualche ulteriore approfondimento. Il PIL comprende il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un paese, in un certo intervallo di tempo e destinati ad usi finali . Fondamentale è la caratteristica “destinati ad usi finali” , per la quale gli oneri finanziari tra soggetti nazionali non vengono considerati in quanto trattasi di flusso di redditi intermedi che si annullano come se fosse un bilancio consolidato, ma così avviene esattamente per tutti le altre transazioni interne di beni e servizi, quindi anche una acquisto interno di materie prime (grano) viene escluso dal PIL ma non per questo è indeducibile mentre viene computato il prodotto finito destinato al consumo (il pane).


Saluti

sp
P.S. : chiaramente possono esserci delle imprecisioni nella descrizione della teoria economica tuttavia credo che i contenuti sano comunque salvi.
Se la tabella non fosse leggibile , come credo, vi posso inviare il file exel
CON TASSE SENZA TASSE TASSE SOLO SOCIETA’
Caso A Caso B Caso C Caso D Caso E Caso F
(1) Capitale proprio 1000 500 1.000 500 1000 500
(2) Debito 0 500 0 500 0 500
0
(3) Reddito operativo 100 100 100 100 100 100
(4) Interessi 5% 0 25 0 25 0 25 5% di (2)
(5) Imposte 30% 30 22,5 30 22,5 30% di (3)-(4)
(6) Reddito netto 70 52,5 100 75 70 52,5 (3)-(4)-(5)

(7) Costo Partecipazione 1000 500 1000 500 1000 500 Uguale al capitale proprio (1)
(8) Rendimendo dell’investimento nella partecipazione 0,07 0,105 0,1 0,15 0,07 0,105 (6)/(7)

(9) 500 risparmiati nell'acquisto della partecipazionel i impiego in finanziamenti attivi al 5% 25 25 25
(10) imposte su interessi attivi30% 7,5

(11) Rendimendo complesivo 0,07 0,07 0.10 0,10 0,07 0,0775 Nel caso A occorre considerare l’investimento pari a 500 (parte non finanziata) : [(6)-(9)-(10)]/500
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