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Una teoria per i tributaristi

Questo sito vuol contribuire a una teoria della tassazione, conciliando quella ragionieristica attraverso le aziende con quella valutativa attraverso gli uffici. Pur cercando di essere comprensibile da tutti, parte da aspetti facilmente inquadrabili dagli operatori del settore. www.giustiziafiscale.com   si rivolge invece direttamente agli opinion makers e agli esponenti della pubblica opinione. Sull'organizzazione sociale in generale www.organizzazionesociale.com

Home Patrimonio e Atti giuridici Il sistema riempie i vuoti lasciati dalla teoria (ma come?)
Il sistema riempie i vuoti lasciati dalla teoria (ma come?) PDF Stampa E-mail
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Patrimonio e Atti giuridici
Scritto da Raffaello Lupi   
Martedì 15 Settembre 2009 00:00

L'allegato articolo di carlo de benedetti sulla tassazione patrimoniale non dovrebbe essere oggetto di commenti in sè, perchè non è ne giusto nè sbagliato, ma emblematico della mancanza di una cornice generale della tassazione, in assenza della quale tutti si sentono autorizzati a parlare di tributi. Gli esperti dei tributi, invece di lasciarsi andare a reazioni come quelle di Nanni Moretti a proposito del cinema, devono riflettere che in ogni materia le credibilità, le primogeniture nei commenti, nelle analisi, bisogna meritarsele..

 

Se gli studiosi della tassazione non parlano dei problemi reali della tassazione patrimoniale, per cui non funzionano le banche dati della fiscalita` ‘‘analitico aziendale’’, alimentate dalle aziende eroganti, Se gli studiosi della tassazione non fanno presente che il patrimonio è un "oggetto misterioso" , ormai "a valle"  del circuito delle attivita` produttive e delle informazioni che vi circolano, la diversa determinabilità della capacità economica individuale non può essere certo recepita da interventi degli esponenti della società civile. L'autore dell'articolo in questione è un "tipo ideale" di lettore per gli studiosi della tassazione, un tipico esponente di quella "opinione pubblica informata" , di quegli opinion makers, che dovrebbero leggere la teoria della tassazione. In assenza di una teoria della tassaizone, è del tutto normale che questi opinion makers, cerchino di scriverla in prima persona, con tutte le improvvisazioni e approssimazioni che ciò comporta, se non altro perchè si occupano di tassazione a tempo perso. Ed è altresì sintomatico di questa incapacità degli studiosi della tassazione di parlare all'opinione pubblica che commenti sensati alla proposta in esame vengano da un intelligente giornalista , come oscar giannino, mentre i tributaristi parlano di imperfezioni normative, di casi limite,  di "arresti giurisprudenziali", di litisconsorzio necessario, di conferimenti bisospensivi, di "esercizi a cavallo", di metodo della ventilazione, di "carichi pendenti" (qui non sapete neppure voi a cosa mi riferisco eh...) e di norme che recitano, di improbabili modifiche di dettaglio, per trasformare una legislazione sconclusionata in un codice altrettanto sconclusionato (ma ne riparleremo).

Per ora osserviamo che in questo modo la teoria progressivamente si autoemargina in una torre d'avorio, inutile e autoreferenziale. E i suoi spazi sono riempiti, giustamente, come può , da chi capita, e nel modo che di volta in volta capita.

Commenti

avatar mauro franchi
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Cercando di cogliere il pensiero del Prof. Lupi, si può notare, solo in apparenza, un trade off fra la puntuale ricerca della sistemizzazione dei criteri di determinazione della capacità economica, da una parte, e la fase d’accertamento, dall’altra.

Infatti, si insiste molto sulla necessità di stabilire corretti principi giuridici di misurazione dando, però, molto spazio alla prova presuntiva, soprattutto nella determinazione del reddito dei piccoli autonomi.

Ampio approfondimento viene dedicato alla prova ed al particolare atteggiarsi che essa assume in campo tributario: l’empirismo, il probabilismo ed il ruolo dell’interpretazione nel giudizio sul fatto.

Ritengo, però, che, per completare l’analisi, dovrebbe essere posto nel giusto rilievo anche il c.d. principio della “discriminazione qualitativa della capacità economica”.

Gli studi, ed il sistema positivo, si sono troppo, se non esclusivamente, appiattiti sull’aspetto quantitativo (con i miraggi utopici, irrealizzati, della personalità e progressività).

Il TUIR discrimina solo formalmente i redditi (salvo l’eccezione di quelli fondiari).

I redditi d’impresa (è ovvio constatarlo), ad esempio, non sono tutti uguali e la loro discriminazione qualitativa si palesa come una necessità giuridico sistemica, dando, ciò, maggior fondamento ad un diverso regime di determinazione – prova dei medesimi, come sopra detto.

La discriminazione qualitativa permette allo studioso di percepire meglio i fenomeni tributari: dall’imposizione all’evasione ed, infine, all’accertamento.

Si possono intendere con miglior cognizione di causa la sussistenza d’imposte sostitutive, così come la tassazione di favore di taluni cespiti economici, oppure, ancora, l’introduzione d’imposte cedolari disancorate dalla globalità dell’imposizione personale.

E’ ovvio che le finalità che in concreto guidano tal discriminazione qualitativa possono essere politicamente le più varie (con un notevole, eppur legittimo, influsso di finalità extrafiscali).

Tutto mantiene un suo valido fondamento anche alla luce del 53 Cost. il quale si “limita” a statuire solamente che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva”...e non si potrà di certo dire che attuando il principio della corretta discriminazione qualitativa dei redditi si viola il principio della progressività, anzi è vero l’opposto, infatti:

violando il primo (discriminazione) si violano contemporaneame nte sia quest’ultimo (progressività) che quello, ancor più basilare, della capacità contributiva.

E tal discriminazione, per operare compiutamente, deve essere concretizzata oltre che all’atto di determinare l’aliquota, ancor prima nel momento di calcolo della base imponibile, così come, infine, nella fase d’accertamento.

avatar mauro franchi
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STABILIZZAZIONE, SVILUPPO E REDISTRIBUZIONE
L'evoluzione della concezione del ruolo della finanza pubblica nei primi decenni del secolo scorso, con l'abbandono delle teorie del liberismo puro a favore di quelle keynesiane e, successivamente, neoliberiste, ha fatto si che la politica finanziaria dello stato da mero strumento di procacciazione dell'entrata, per fronteggiare la spesa pubblica, si evolvesse in mezzo per promuovere lo sviluppo, stabilizzare la domanda e redistribuire la ricchezza. Ciò ha contribuito ad influenzare la formazione dei vari sistemi tributari, in particolare mediante l'introduzione del c.d. principio di capacità contributiva e della conseguente imposta generale sul reddito (es. IRPEF) progressiva (funzione di redistribuzione). Le imposte generali sui consumi si prestanto, a loro volta, alla stabilizzazione della domanda, così come la manovra delle aliquote delle imposte sul reddito. Le agevolazioni, sia strutturali che episodiche, inoltre sono strumento per la promozione dello sviluppo. Le rigidità conseguenti all'eccessiva evoluzione del debito pubblico, negli ultimi decenni del secolo scorso, soprattutto in Italia, hanno condotto, purtroppo, ad una diminuzione dell'effeccienz a ed operatività di tali strumenti, mediante una serie affannosa e frammentata d'interventi che, sul versante del sistema fiscale, contribuiscono a creare una percezione di disorganicità. Un teoria giuridica della capacità economica va oltre questi presupposti, evidentemente, essendo, invece tesa alla costruzione di logiche di determinazione e misurazione proprie del diritto tributario, subendo, però, non poco condizionamento dal tali "determinanti" di ordine generale.
avatar mauro franchi
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PRESUPPOSTO ED ACCERTAMENTO

Sotto un altro profilo andrebbe messa bene in luce la differenza che
sussiste fra le seguenti tecniche impositive:
- quelle che stabiliscono un presupposto d'imposta coincidente con
l'entità economica tassata;
- quelle che stabiliscono un presupposto d'imposta che è solo
l'occasione, indiretta, per tassare l'entità economica ad esso
collegata.
E' evidente lo sforzo maggiore, per il legislatore, interprete e
contribuente, derivante, nel secondo caso, sia dalla concreta
individuazione della materia imponibile che dalla sua misurazione.
Viene da se, però, che il presupposto è in funzione dell'accertamen to ed il
fatto che esso sia diretto od indiretto dovrebbe dipendere dallo
stabilire previamente quale sia il momento più opportuno per
intercettare la materia imponibile. Infatti, se è bene non lasciarsi
sfuggire l'occasione del compimento, ad esempio, di un atto giuridico,
segnalante il trasferimento di un bene, allora, questo, potrà,
convenientement e, assumere la funzione, appunto, di presupposto.
Perciò il presupposto dovrebbe, in primis, per chiarezza, descrivere
la sussistenza della materia imponibile, definendola, in capo al
contribuente ma, se ai fini dell'accertamen to può essere più
fruttuoso, allora sarà maggiormente opportuno assumere, come tale, un
fatto occasionato dal modo di essere o di manifestarsi della stessa
materia imponibile. Altrimenti, come spesso accade il presupposto può
limitarsi a definire il modo di essere della materia imponibile e,
successivamente, norme varie, in tema di procedura accertativa,
cercheranno d'intercettarla. Ma, un presupposto intelligentemen te
formulato può permetter di cogliere due piccioni con una fava: nel
momento stesso di definizione della materia imponibile la s'intercetta
anche.
avatar mauro franchi
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Dibattendo di elusione (concetto ancora alquanto indefinito, nonostante su di esso si sia scritto molto) usualmente si pone in evidenza, soprattutto, il rischio a che l’Amministrazione, appiattendosi su recenti prese di posizione giurisprudenzia li, tutt’altro che consolidate, faccia leva, solo ed esclusivamente, sul concetto della “valida ragione economica”, obbligando, quindi, il contribuente, che non voglia correr rischi, nella sua attività di previa pianificazione fiscale, a scegliere la soluzione fiscalmente più onerosa. Diversamente egli dovrebbe evidenziare quali sono le giustificazioni sostanziali economiche che rendono plausibile la “scelta” di un diverso e meno costoso regime tributario. Questa obiezione è fondata ed evidenzia bene l’insufficienza della sola “leva” economica, costringendo, invece, l’interprete a ricercare una giustificazione più “profonda”, da rinvenirsi, soprattutto, nell’aggiramento di norme o principi ad alta valenza sistemica. La confutazione sopra evidenziata, però, se assunta in modo semplicistico e non meditato, rischia, invece, di esser fuorviante. Non è detto, infatti, che il concetto di “valide ragioni economiche” non serva mai. Dipende. Si rifletta: non possiamo paragonare il contribuente, ad esempio, ad un cliente di un supermercato che avvicinandosi allo scaffale delle marmellate sceglie quella meno costosa. E’ chiaro, nessuno potrebbe obbiettargli il fatto che non esiste altra ragione economica se non quella di spender meno e, quindi, obbligarlo a comprare il barattolo più caro. La situazione del contribuente è diversa. Di solito il “problema” dell’elusione emerge quando il medesimo deve effettuare delle scelte in merito ad un regime di tassazione: deve, cioè, effettuare quel particolare tipo di “pianificazione fiscale” che consiste in un “arbitraggio”. Ma quando è che possiamo dire trovarci in questa precisa situazione? Quando, ritengo, a fronte dell’effettuazione di una “operazione”, assunta a tassazione, l’ordinamento prevede due o più possibilità di scelta. Ciò non accade quasi mai. I rari casi che si verificano hanno sempre una giustificazione, od oggettiva, oppure soggettiva e riguardano principalmente regimi agevolativi. Mi spiego meglio: un’operazione, normalmente, è tassata col regime “A”, se però presenta alcuni requisiti, oppure ne è manchevole, viene sottoposta ad imposizione col regime di favore “B”. Il contribuente, perciò, come capita, ad esempio, nei conferimenti, potrebbe decidere di sottoporre ad imposizione sostitutiva l’operazione, senza temere alcuna doglianza da parte dell’Amministrazione. Quasi sempre, invece, il contribuente, nell’ambito della propria attività di pianificazione si avvede (magari inconsapevolmen te) che non sussiste un altro regime fiscale, diverso e di favore ma intuisce che se ponesse in essere un altro fatto, diverso, e quindi diversamente trattato dall’ordinamento tributario, potrebbe scontare una minore imposizione, ottenendo, comunque, lo stesso risultato finale. Consapevolmente, perciò, sposta il baricentro della sua analisi verso la “simulazione”. Camuffa il vecchio negozio giuridico con un altro vestito, lo traveste. Dice di locare, oppure di dare a prestito, anzichè vendere. In modo ancor più evidente: se io che, essendo maschio, domattina, che non è carnevale, esco di casa con gli abiti di mia moglie, può esser che qualcuno che mi conosce, fermandomi per strada, mi chieda quale valida ragione ho di comportarmi in quel modo. Io potrei rispondergli che essendo l’unico abito a mia disposizione l’ho indossato (in quanto nottetempo i ladri mi hanno svaligiato il guardaroba) non potendo, di certo, uscire nudo. Avrei maggiori difficoltà, si capisce, a giustificare il tutto dicendogli, invece, che, in realtà, la mia vera natura è quella di femmina. Quindi, pur non potendo, il concetto di valida ragione economica, sicuramente, esser l’unica arma di confutazione non va, però, nemmeno posto totalmente al bando. Deve far parte, insomma, di quel più ampio “bagaglio di strumenti”, da maneggiarsi con cura da parte dell’interprete, qualunque sia il suo ruolo, in un contesto teorico che metta anche bene in evidenza il baluardo, questo sì, difficilmente sindacabile, da parte dell’Amministrazione e rappresentato dalla “volontà negoziale delle parti”.
avatar mauro franchi
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AVVIAMENTO FRA REGISTRO E DIRETTE: I SOLITI EQUIVOCI
Da un punto di vista letterale appare evidente che l’Ufficio non può utilizzare, ai fini della determinazione della plusvalenza d’impresa derivante della cessione di azienda, gli stessi criteri valevoli per l’imposta di registro. Sembra un caso di scuola: la determinazione dell’imponibile ai fini di quest’ultima imposta fa riferimento al valore venale mentre occorre basarsi sui corrispettivi contrattuali per le IIDD. In quest’ultimo comparto il valore venale diventa rilevante solo nella procedura d’accertamento, quale indizio che, corroborato da altri elementi, possa fondare un maggior valore. Insomma, da un lato il criterio opera come modalità legale di determinazione della basa imponibile, dall’altro, invece, serve nella successiva fase di accertamento. Detto così, mi pare, non si fa molta fatica a tenere distinti gli aspetti ed a capire in quali ristretti limiti vada utilizzato il criterio del valore normale. Perché, allora, la Cassazione sta assumendo un atteggiamento diverso? Penso che una risposta, almeno parziale, si potrebbe avere ponendo bene in risalto la specificità dei casi sottoposti alla sua decisione. Infatti, potrebbe esser che in quella data situazione emergano particolarità tali da rendere evidente la ragionevolezza del ricorso a questo criterio forfetario. Quello che non dovrebbe mai mancare, invece, è una congrua motivazione che non potrà, certo, mai essere del tipo: “siccome ai fini dell’imposta di registro si è stabilito questo, allora, la stessa cifra, per forza, deve valere anche ai fini della determinazione del reddito d’impresa”. Ciò che difetta, oggi, in modo grave, in un contesto di fiscalità di massa, ove è importante “fare cassa” il più presto possibile, è il frettoloso recepimento acritico, da parte degli Uffici, di massime stringate, rinvenibili dalla giurisprudenza di legittimità, senza la necessaria ponderazione sul caso specifico oggetto di controllo. Ma anche un’altro ragionamento si può fare: sembra venire in rilievo la necessità di procedere ad una determinazione di tipo presuntivo nei confronti dei piccoli autonomi, anche nella fase di realizzazione di avvenimenti c.d. straordinari della loro vita imprenditoriale. Infatti, i criteri scientifici, proposti con autorevolezza dal Guatri, ad esempio, sono più adatti per le grandi realtà aziendali che non per le piccole. Per un bar, un negozio, un laboratorio artigiano, spesso, si seguono, nella prassi professionale, criteri forfetari che molto si assomigliano a quelli utilizzati ai fini della richiamata imposta di registro: reddito medio degli ultimi tre esercizi, moltiplicato per tre, ad esempio. La necessità di ammettere la prova contraria, intesa in senso molto largo, deve, però essere un principio accolto e condiviso dall’Agenzia delle Entrate. Infatti, il funzionario dovrebbe possedere un’elevata sensibilità valutativa, che spesso non ha: ritornando all’esempio del bar, oggi le licenze si svendono a poche decine di migliaia di euro (è forse alle porte una liberalizzazion e) ed il mercato non è più quello di qualche anno fa. Il giovane funzionario che deve trattare la pratica in modo serializzato e piatto sa questo? I capelli grigi, che hanno i capo team, almeno di secondo livello, dovrebbero condurre a prendere delle decisioni più ponderate. Ma questo, purtroppo, ultimamente, avviene sempre meno frequentemente, a causa dei più volte richiamati condizionamenti di budget cui l’Agenzia, in modo sempre più pressante è, negli ultimi tempi sottoposta.
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