il tributo "corporativo" Stampa
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Tributi minori
Scritto da Raffaello Lupi   
Domenica 15 Maggio 2011 19:58

Potrà dispiacere a quanti inseguono le definizioni, ma il malessere fiscale italiano dipende dal cattivo funzionamento di entrate sicuramente tributarie, e quindi sono relativamente poco importanti le tendenze a considerare come tributo alcune prestazioni caratterizzate da una qualche debole coattività, come appunto i contributi ai consorzi di bonifica, le tasse aeroportuali, la tariffa raccolta rifiuti, e il contributo annuo per l’iscrizione in albi professionali (cass.ne 1782/2011, che riportiamo di seguito). leggendo questa sentenza viene da chiedersi perchè non debbano considerarsi tributi anche le quote di condominio, ed in genere tutti i contributi ai consorzi volontari, anch'essi doverosi, come dopotutto  qualsiasi pagamento del debito (il requisito della doverosità è buffo, e farebbe diventare tributo qualsiasi obbligazione, ma i giudici giustamente, electa una via ...la sostengono  con ogni riflessione appaia un minimo anche lontanamente sensata, all'insegna del tutto fa brodo, e fanno benissimo perchè è il loro mestiere...Il nostro è invece scomporre, decostruire -come direbbe Derrida- i loro ragionamenti.  La risposta, scomponendo il ragionamento dei giudici, è probabilmente che l'obbligatorietà pubblicistica del consorzio, nell'interesse pubblico al controllo di determinati settori di attività, alla loro autoorganizzazione, con frammenti di poteri autoritativi, sia pure "elettivi", e quindi rappresentativi degli iscritti, gli conferisce natura tributaria.

Le altre argomentazioni utilizzate per affermare la natura tributaria , come la mancanza di una qualsiasi corrispettività nei confronti del singolo associato, andrebbero benissimo anche per il condominio, oppure per il circolo tennis parioli, oppure per il consorzio costa smeralda. Abbiamo in entrambi i casi una attività svolta indifferenziatamente nell'interesse del gruppo , che si rivolge solo indirettamente a beneficio dei singoli consorziati. Spese comuni a fronte di uso comune: anche quando si va a cena assieme si divide indipendentemente da quello che ciascuno ha mangiato, ma non siamo davanti a un tributo, perchè la cena non ha nulla di pubblicistico. Se però lo stato , i pubblici poteri, investissero il gruppo di prerogative pubblicistiche, come l'autoregolamentazione di un settore professionale di interesse generale, ecco che rispunta la natura tributaria. Già che ci sono, i giudici buttano dentro anche il riferimento economico , ma qui la ripartizione della ricchezza non c'entra nulla, perchè il contributo è dovuto, "per testa" indipendentemente dal reddito o dal fatturato professionale, a differenza dei contributi sanitari e previdenziali, che in parte qua sono delle vere e proprie imposte. Il contributo di iscrizione si presenta invece come una vera e propria tassa, e lo sarebbe anche se fosse in qualche modo parametrato alla "forza economica" del singolo iscritto. Perchè comunque una serie di costi comuni, di iscrizione, gestione, riscossione e autoorganizzazione sono connessi al numero degli iscritti, non alla ricchezza che transita presso di loro. Ancora una volta la categoria della tassa, come particolare forma di tributo, che prescinde dal calcolo della ricchezza, dimostra la propria utilità. Come i propri confini  sfumati rispetto all'imposta, che vedremo per i contributi alle camere di commercio, dove invece si cerca di "dividere i costi" di appartenenza all'istituto secondo parametri che considerano l'importanza economica dell'azienda obbligatoriamente associata. Forse è proprio quello della "doverosità" dell'associazione-iscrizione, anzichè della doverosità del contributo, ad illuminare alcune espressioni della suprema corte. In entrambi i casi, comunque, queste gilde obbligatorie, riscuotono  quello che spendono a beneficio degli iscritti, e quindi  mai si potrebbe parlare di "imposta" per le relative entrate, che sono infatti autodeterminate dagli iscritti. Per questo appare assurdo parlare di "Imposta sulla raccolta di capitali" per il diritto di iscrizione alla camera di commercio. Ma avremo occasione di riparlarne.

 

SEZIONEI UNITE CIVILI

Ordinanza 11 gennaio - 26 gennaio 2011, n. 1782

Svolgimento del processo

La controversia nasce a seguito dell'invio da parte di Equitalia Gerit di un avviso per la riscossione in favore del Consiglio Nazionale Forense a carico degli avvocati del foro di Roma non abilitati al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori per la riscossione del contributo annuale previsto dall'art. 14, D.Lgs. n. 382 del 1944, contributo che il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma aveva deciso di non continuare a riscuotere a decorrere dal 2001, ritenendo che lo stesso non fosse dovuto.

Contestando radicalmente la legittimità del preteso contributo, un gruppo di avvocati ha citato innanzi al Giudice di Pace di Roma il Consiglio Nazionale Forense, il quale in questa sede ricorre per regolamento preventivo di giurisdizione a favore del giudice amministrativo, o, in via subordinata, a favore, del giudice tributario. Si sono costituiti con distinti controricorsi, da un lato, gli avv.ti A.M., S.M. e Ma.St., dall'altro, gli avv.ti M.A., B.F., K.B., C.F.D., F.L., m.m., A.S.. Tutte le parti hanno depositato memoria.

Motivazione

1. Preliminarmente va rilevata l'infondatezza della contestazione svolta dal difensore delle parti controricorrenti (esclusivamente in sede di udienza di discussione) circa un supposto difetto di rappresentanza del Presidente del CNF. Infatti, l'art. 6, comma 1, del "Regolamento per le attività del Consiglio Nazionale Forense" approvato nell'ottobre 1992 prevede che “il Presidente rappresenta, dirige, presiede il Consiglio Nazionale Forense e ne coordina l'attività”.

2. Il Consiglio Nazionale Forense, nella prospettazione principale del proprio ricorso, pone in evidenza come dalla lettura dell'atto di citazione emerga che gli attori contestano, non il singolo provvedimento adottato nei loro rispettivi confronti, ma “l'atto generale presupposto con cui il CNF ha deciso di richiedere a tutti gli avvocati il contributo annuale di Euro 25,8, ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs.Lgt. n. 382 del 1944”. Oggetto della contestazione è Vati della pretesa del Consiglio Nazionale Forense, non l'avviso di pagamento, o il quantum della pretesa o la possibile conseguenza derivante dal mancato pagamento. Per queste ragioni, la giurisdizione spetterebbe al giudice amministrativo.

3. Il Consiglio Nazionale Forense, nella prospettazione subordinata del proprio ricorso, prospetta la possibilità che la controversia sia attribuibile alla giurisdizione del giudice tributario, stante la nuova formulazione dell'art. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, il quale assegna a tale giurisdizione, appunto, tributi di ogni genere e specie comunque denominati.

4. È questa la soluzione che appare più corretta e coerente con il sistema. Anche se l'art. 14, D.lgs. n. 382 del 1944, denomina "contributo", la prestazione dovuta dagli iscritti nell'albo per le spese del funzionamento del Consiglio (Nazionale Forense), tale denominazione è irrilevante al fine di determinare (od escludere) la natura tributaria della prestazione. Questa, infatti, ha le stesse caratteristiche e scopi della "tassa" (così denominata, secondo un linguaggio tipico del diritto tributario) prevista dall'art. 7 del medesimo decreto. Tale norma, al comma 2, prevede che “il Consiglio (dell'Ordine) può, entro i limiti strettamente necessari a coprire le spese dell'ordine o collegio, stabilire una tassa annuale, una tassa per l'iscrizione nel registro dei praticanti e per l'iscrizione nell'albo, nonché una tassa per il rilascio di certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari”.

5. Il sistema normativo riconosce, in questa prospettiva, all'ente "Consiglio", una potestà impositiva rispetto ad una prestazione che l'iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcuna possibilità di scegliere se versare o meno la tassa (annuale e/o di iscrizione nell'albo), al pagamento della quale è condizionata la propria appartenenza all'ordine. Siffatta "tassa" si configura come una "quota associativa" rispetto ad un ente ad appartenenza necessaria, in quanto l'iscrizione all'albo è conditio sine qua non per il legittimo esercizio della professione.

6. Sussiste in tal modo, uno degli elementi che caratterizzano il "tributo": la doverosità della prestazione. Chi intenda esercitare una delle professioni per le quali è prevista l'iscrizione ad uno specifico albo, deve provvedere ad iscriversi sopportandone il relativo costo (la tassa di iscrizione e la tassa annuale), il cui importo non è commisurato al costo del servizio reso od al valore della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell'ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l'iscritto.

7. Ecco, quindi, il secondo elemento perché sia riconoscibile la "natura tributaria"  della prestazione: Il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante. Il presupposto, nella specie, è costituito dal legittimo esercizio della professione per il quale è condizione l'iscrizione in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all'ente delegato dall'ordinamento al controllo dell'albo specifico nell'esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di quest'ultimi alle predette prestazioni.

8. Tali considerazioni trovano conforto nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite che hanno riconosciuto, proprio sulla base della nuova formulazione dell'art. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 (introdotta con la riforma del 2001), la giurisdizione del giudice tributario per le controversie concernenti il pagamento del diritto annuale di iscrizione in albi e registri delle Camere di commercio, il c.d. diritto camerale (Cass. S.U. nn. 13549 del 2005, 10469 del 2008, 1667 del 2009): una situazione non dissimile da quella che concerne la tassa di iscrizione agli albi relativi all'esercizio di determinate professioni.

9. Pertanto, deve essere dichiarata nella specie la giurisdizione del giudice tributario.

 

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