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Patrimonio e Atti giuridici
Scritto da Raffaello Lupi   
Sabato 26 Marzo 2011 17:44

Le proposte di imposta patrimoniale crescono, segno evidente che gli studiosi della convivenza sociale avvertono chiaramente quella feudalizzazione della società che noi, su dialoghi e non, mettiamo da tempo in evidenza. Ma dove sono i patrimoni? Essenzialmente in immobili (già tassati) aziende (non tassate come patrimonio, ma come reddito, e già va bene) e redditi  finanziari, che invece sono già surrettiziamente tassati come patrimonio, sottoponendo a prelievo sostitutivo anche i redditi nominali

 

necessari a salvaguardare il patrimonio dall'inflazione. La maggior parte degli  impieghi finanziari delle famiglie rendono meno dell'inflazione, eppure sono tassati anche sulla parte di rendimento necessaria a recuperare l'inflazione. Che di solito è insufficiente anche per questo obiettivo. In questo quadro, chi invece gioca in borsa, e realizza cospicui redditi reali continua a pagare sempre il 12,5 percento, con un vantaggio fiscale evidente. Siamo in un regime che tassa poco chi guadagna davvero , e in compenso tassa patrimonialmente chi  neppure reintegra il proprio patrimonio. Bisognerebbe mettere in cantiere un'analisi con gli  economisti che si sono occupati del tema, riporto qui di seguito un articolo di Arachi, con cui si potrebbe interloquire proficuamente.

Giampaolo  Arachi da Nel Merito.

L’ipotesi di una tassazione sui patrimoni finanziari simile al modello olandese in sostituzione dell’attuale sistema di tassazione dei redditi finanziari offre potenzialmente il vantaggio di stabilizzare il gettito. Tuttavia, la sua adozione appare difficile da un punto di vista politico.


Il dibattito sulle imposte patrimoniali, innescato dalla proposta Amato di utilizzare un’imposta straordinaria per ridurre lo stock del debito pubblico, ha rapidamente imboccato la strada della sterile contrapposizione ideologica. Eppure come ha giustamente osservato Alessandro Santoro su nel Merito , una riflessione pacata sul ruolo che le imposte patrimoniali potrebbero avere nel nostro sistema sarebbe quanto mai opportuna. In particolare Santoro avanza l’interessante proposta di adottare il modello olandese per la tassazione delle attività finanziare. Questo schema prevede che le attività finanziarie siano tassate non sulla base del reddito effettivo ma di un reddito presunto che rappresenta il rendimento ordinario di un investimento privo di rischio (ad esempio il rendimento medio dei titoli di Stato). Di fatto, si tratta di applicare una imposta patrimoniale al valore delle attività finanziarie possedute.
La proposta di Santoro è interessante anche perché l’attuale sistema di tassazione dei redditi delle attività finanziarie è del tutto disorganica. Come si ricorderà la riforma Visco del 1998 aveva perseguito l’obiettivo dell’uniformità del prelievo fra diverse tipologie di strumento finanziario (obbligazioni, azioni e derivati) e fra le diverse tipologie di redditi (interessi, dividendi e plusvalenze) puntando decisamente sulla tassazione alla maturazione. Tuttavia la tassazione del maturato è facilmente realizzabile solo all’interno delle gestioni patrimoniali o dei fondi comuni di investimento. Per questo motivo la riforma aveva previsto che all’imposta sulle plusvalenze realizzate al di fuori delle gestioni e dei fondi fosse applicato un correttivo che la rendesse “equivalente” all’imposta che si sarebbe pagata se fosse stato applicato il principio di maturazione. Tale correttivo, non a caso, fu denominato “equalizzatore”. L’abrogazione dell’equalizzatore nel 2001 e la recente riforma della tassazione dei fondi comuni di investimento hanno confuso il disegno originario. Nel sistema attuale coesistono tre regimi di tassazione radicalmente differenti: il regime del risparmio gestito che prevede la tassazione alla maturazione e la compensazione fra redditi di capitale e redditi diversi, il regime del risparmio amministrato in cui i redditi di capitale sono tassati quanto pagati dall’emittente, le plusvalenze alla cessione dei titoli e non è possibile compensare le minusvalenze con i redditi di capitale, e il regime dei fondi comuni che prevede la tassazione di redditi di capitale e plusvalenze accumulati nel fondo al momento della cessione della quota e consente la compensazione fra minusvalenze e redditi di capitale nell’ambito del fondo.
L’adozione del modello olandese consentirebbe di recuperare unitarietà al sistema. Inoltre potrebbe garantire un migliore coordinamento fra l’imposizione sui redditi d’impresa (Irpef per autonomi e società di persone, Ires per società di capitali) e quella sulle attività finanziarie se fosse coniugato con un modello di tassazione duale dei redditi: il rendimento ordinario del capitale investito (comunque finanziato) potrebbe essere dedotto dal reddito d’impresa (secondo uno schema analogo alla vecchia Dit) per essere tassato una sola volta in capo al finanziatore.
Tuttavia la realizzazione pratica di una tassazione basata sul rendimento presunto delle attività finanziarie incontra diversi ostacoli. Per evidenziarli è utile osservare che la tassazione secondo il modello olandese è equivalente ad una tassazione alla maturazione del rendimento ordinario delle attività finanziarie. Si tratta di una tassazione alla maturazione perché il rendimento presunto va calcolato sul valore effettivo del titolo e non sul costo storico d’acquisto. Il sistema pone quindi le stesse difficoltà applicative del regime del maturato. Sono due, in particolare, questioni fondamentali. La prima, più ovvia, riguarda la valutazione dei titoli che non sono scambiati su mercati regolamentati. La seconda è invece collegata al meccanismo di prelievo. L’Italia ha optato da anni per un prelievo sui redditi di capitale e sulle plusvalenze attraverso le ritenute applicate intermediari. Il sistema delle ritenute ha notevoli punti di forza: riduce, fin quasi ad annullarli, i costi amministrativi per l’accertamento e i costi di adempimento per risparmiatori e garantisce l’anonimato. Per applicare la ritenuta al rendimento presunto, al di fuori delle gestioni, occorre risolvere il problema della liquidità: se il risparmiatore non cede il titolo e se non ha la liquidità sufficiente a pagare l’imposta sul conto corrente, come farà l’intermediario a prelevare l’imposta?
Si possono ovviamente immaginare meccanismi, più o meno articolati, per risolvere questi problemi. La commissione Guerra che nel 2008 aveva valutato la possibilità di applicare le imposte sulla base del maturato anche al regime del risparmi amministrato, aveva avanzato una serie di proposte. Tuttavia se queste soluzioni fossero ritenute praticabili perché applicare l’imposta al rendimento presunto e non al rendimento effettivo?
La differenza fra il rendimento presunto (calcolato come rendimento ordinario dell’investimento privo di rischio) e il rendimento effettivo costituisce il compenso per l’assunzione del rischio. Quando questa componente viene tassata lo Stato si appropria di una parte del compenso ma anche della quota di rischio corrispondente (sempre che le perdite siano riconosciute integralmente dal punto di vista fiscale come avviene nel regime del risparmio gestito). La letteratura economica suggerisce gli investitori possono annullare gli effetti della tassazione aumentando la quota di titoli rischiosi nei loro portafogli (mentre lo Stato specularmente la diminuisce). Di conseguenza la tassazione del rendimento ordinario calcolato ex-ante è perfettamente equivalente (anche ex-post) alla tassazione ex-post del rendimento effettivo se investitori e Stato sono liberi di aggiustare i loro portafogli e se lo Stato non è in grado di realizzare il risk pooling in modo più efficiente del settore privato. E tuttavia in un mondo in cui le bolle speculative sono un fenomeno ricorrente i due sistemi sono chiaramente diversi. La tassazione del reddito presunto, calcolato come reddito ordinario delle attività finanziarie, garantisce un gettito molto più stabile. La volatilità del gettito della tassazione del reddito effettivo delle attività finanziarie (comprensivo di plusvalenze e minusvalenze) è ben testimoniata dal prelievo sui fondi comuni di investimento italiani che è passata da circa 6 miliardi di euro del 2000 a quasi zero nel 2001 a seguito dello scoppio della bolla immobiliare.
A fronte di questo vantaggio, il modello olandese appare molto più debole dal punto di vista politico. Con la tassazione del reddito presunto il contribuente potrebbe essere chiamato a pagare un’imposta anche se nel periodo fiscalmente rilevante ha conseguito una perdita. Ovviamente dal punto di vista economico questa eventualità compensa i casi in cui il reddito effettivo ha superato il reddito ordinario senza che sull’eccedenza venisse pagata l’imposta. Ma l’esperienza dell’”equalizzatore” e, in realtà anche dell’Irap, dimostrano che l’applicazione dell’imposta quando i redditi effettivi sono negativi genera una fortissima opposizione politica.
Il modello olandese merita quindi di essere considerato, in vista di una riorganizzazione complessiva della tassazione dei redditi di capitale, ma la sua introduzione in Italia richiederebbe un attento ripensamento del prelievo attraverso gli intermediari e una notevole capacità di “marketing” politico.

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