Le ragioni del fallimento? Un gigantesco intreccio di equivoci Stampa
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Teoria della tassazione
Scritto da Raffaello Lupi   
Domenica 10 Gennaio 2010 08:29

Il disorientamento esistente in italia sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari può essere spiegato in vari modi, che ruotano attorno alla crisi delle scienze giuridiche, alla loro separazione rispetto all'economia e alla società. Questo buco nero tra discipline giuridiche ed economiche è particolarmente grave in materia

 

di tributi. E' un disorientamento che non deriva certo dalle qualità umane dei membri della comunità scientifica tributaria, inevitabilmente in linea con quelle generali delle accademie italiane. Però ci sono una serie di fattori che hanno portato  la comunità scientifica al fallimento, cioè al mancato controllo del settore della convivenza sociale affidatole. Vediamo di scomporre alcune di queste cause.

Per secoli la tassazione era elementare, uno tra i tanti settori di attività dei poteri pubblici, che poteva svolgersi nel quadro delle ordinarie conoscenze economico giuridiche, tanto è vero che scienza delle finanze si dedicava solo agli aspetti economico politico sociali della tassazione. Diritto tributario poteva essere solo legislazione, come oggi abbiamo legislazione ambientale, previdenziale, urbanistica, sanitaria e la parte più nobile, e giuridicamente complessa era il processo. E si è continuato a incentrare tutto sul processo anche davanti al bisogno di principi nato con la tassazione attraverso le aziende, dove il diritto dei poteri pubblici si intreccia con l'economia, l'organizzazione aziendale e la valutazione economica dei rapporti giuridici. Coesistono  pezzi di diritto civile e diritto amministrativo, di economia e contabilità aziendale. Diritto dei poteri pubblici era la componente giuridica tradizionale, cui si aggiungeva l'analisi patrimoniale dei rapporti privati, studiati come manifestazione di ricchezza, non con gli occhi dei privatisti. Alla tradizionale impostazione economica della tassazione si aggiungeva l'economia aziendale, che lascia le tracce per analizzare patrimonialmente i rapporti giuridici di diritto privato.

E' un insieme che produce solo confusione se non viene sistematizzato. selezionando parti di materie diverse e amalgamandole in funzione della tassazione. Invece si è iniziata questa sistematizzazione dalla fine, dal processo, che era del tutto incomprensibile se non si sistematizzava quello che veniva prima, e che non era più alla portata della cultura giuridico economica diffusa. Si è tentato di sistematizzare la nuova tassazione partendo dalla coda, cioè dalla parte più giuridicamente nobile della vecchia, cioè il processo. Che era però impossibile da capire se non si sistematizzava "il diritto", nella sua matrice "economico-amministrativa", a partire dall'applicazione del diritto da parte degli stessi contribuenti, delle aziende e dell'amministrazione: si è giuridicizzata l'attività dei contribuenti e delle aziende, rispetto alle quali  il processo diventa una appendice; se non si sistematizza la fisiologia dell'applicazione delle imposte non si riesce a capire la patologia, cioè il processo. Un processo che dovrebbe essere destinato a pochi casi limite, invece è divenuto la prassi, proprio per la confusione sparsa dalle carenze teoriche. Il processo è sullo sfondo, ma il diritto viene prima, soprattutto nell'organizzazione pubblicistica della convivenza sociale.

Oltre ad aver "iniziato dalla fine", cioè dal processo, il fallimento dipende anche da altri fattori. Come il periodo di crisi generale delle scienze sociali, dove il diritto si appiattiva sulla legislazione, sui "materiali", come se essi esprimessero chissà quale logica sovrumana e ineffabile. In questo modo il diritto finiva per non capire neppure più i materiali di cui faceva l'esegesi...ogni documento proveniente da una qualche autorità, politica, amministrativa, accademica,  diventava un feticcio per poco tempo, "re per una notte", che veniva poi spodestato da altri documenti, effimeri feticci di una eterna rincorsa senz'anima...

In questo momento di crisi generale del sapere economico-politico-giuridico , la società ha avvertito il bisogno di una sistemazione teorica della tassazione aziendale, e ha fatto grandi aperture di credito al diritto tributario come materia universitaria, facendo crescere in pochi decenni una comunità accademica pari o superiore a quelle con una tradizione molto più consolidata. Questo momento di crisi, e di compartimentalizzazione del sapere umanistico-sociale,  è una delle "ragioni del fallimento": fallimento della spiegazione dei fenomeni tributari alle classi dirigenti, e agli studiosi della società, quindi indirettamente alla società....L'appiattimento sulla legislazione, e sui "materiali" (il qualcuno ha detto che), la che ha danneggiato le scienze giuridiche in genere, ha ucciso nella culla il diritto tributario che la società aspettava. Tutte le partizioni del diritto sono state condizionate da questa disumanizzazione, ma avevano tradizione e stabilità legislativa: si poteva anche fingere che i materiali fossero la sedimentazione in terra di un sapere sovrumano. I giuristi hanno scambiato il metodo giuridico con l'esegesi dei materiali, legislativi, giurisprudenziali, dottrinali, europei, interpretativi etc.. Non si vede una comunità di persone in grado di prendere le esperienze della tassazione, organizzarle in una cornice, e restituirle ai vari livelli sociali interessati, da quello politico-mediatico a quello professionale. 

Emerge un'altra ragione del fallimento, cioè l'accantonamento dell'oggetto economico della tassazione,  la seprazione da una scienza delle finanze che ha fatto un passo indietro, e si occupa di astratti esercizi logico-matematici, oltre che di tutti i settori di intervento dello stato, attraverso il concetto di "economia pubblica"; Un'altra ragione del fallimento è che questo condizionamento processuale, proveniente dalla tassazione del passato, ha fatto nascere il diritto tributario guardando all'indietro. Radicato nei tempi in cui non serviva una teoria specifica, cioè quelli in cui la tassazione poteva utilizzare le conoscenze comuni degli operatori del diritto e dell'economia. Nel quadro delle imposte tradizionali, sulle quantità fisiche di merci, sulla rendita delle coltivazioni o del tenore di vita, sugli atti giuridici solenni, sul possesso dei fabbricati, l'unica "parte nobile" era il processo. Non a caso i fondatori dell'accademia tributaria provenivano dalla procedura civile ed essendosi formati prima della tassazione aziendale guardavano a tutto attraverso il processo, un pò come chi guarda il cielo dal buco della serratura. Si sono trovati del tutto spiazzati quando la società, dopo il 1973, ha di colpo avvertito il bisogno di una teoria della tassazione aziendale, in cui diritto ed economia si amalgamassero nelle note quattro componenti-base. Due di diritto e due di economia, verso le quali è nato un rapporto poco sereno, complessato, di trascuratezza o di sopravvalutazione.  Lo schema tradizionale, in cui l'ufficio stima, e poi eventualmente si litiga dal giudice, cede il passo alla determinazione aziendale, e a tutte le sue raffinatezze, da discutere prima di tutto con l'amministrazione, e dove il processo diventa una ipotesi limite; che resta importante per le ipotesi, ancora frequenti, di tassazione estimativa ed elementare.

Ma il diritto tributario degli anni settanta non aveva, proprio per la sua nascita "processuale" e la sua giovane età, gli strumenti per rispondere alle richieste provenienti dalla società, che pure gli ha fatto grandi aperture di credito in termini universitari. E' stato così possibile andare rapidamente in cattedra, per poi  fare brillantemente professione, ma senza una teoria, e senza una identità la stessa accademia soffre!!. Non si sa in nome di cosa fare una selezione dei docenti, e la raccomandazione feudale diventa inevitabilmente l'unico criterio , perchè non è possibile fare appello ai contenuti se non si sa quali debbono essere questi contenuti e tutto viene demandato a un legislatore insultato e invocato nello stesso tempo? Se non si sa in nome di cosa riflettere, l'unico parametro diventa l'erudizione e la complicazione, estraniando il diritto tributario dal dibattito economico sociale..facciamo due risate con aldo giovanni e giacomo in una metafora di come un pensiero potrebbe essere espresso e come troviamo lo stesso ragionamento secondo lo stile che l'accademia, con i suoi fraintendimenti e disorientamenti, oggettivamente propone ai giovani studiosi.

Senza l'identità di una teoria resta la consorteria, lo scambio di favori per la spartizione di quel poco di potere che c'è nell'università pubblica, dove si mettono in cattedra i propri amici coi soldi della collettività. Senza una identità, senza valori condivisi, nella può contrastare gli inquinamenti generali delle accademie italiane, fino al fallimento. Non si sa infatti in nome di cosa essere "seri" , valutare in base ai contenuti e quant'altro: se non si sa in che senso siamo scienza, e nemmeno dove ci collochiamo rispetto alle discipline contigue, come si fa a valutare la "validità scientifica" di un discorso, di un libro di uno  scritto?. Se mancano valori in nome dei quali frenare gli istinti baronali, questi prendono il sopravvento , al di là della buona volontà dei singoli e delle caratteristiche caratteriali. Nell'accademia del diritto tributario, le qualità umane sono quelle comuni, o anche migliori, ma la mancanza di un progetto da condividere per essere utili alla comunità, fa venire fuori lo smarrimento, il disorientamento, soprattutto in chi prende più sul serio i propri compiti di studioso; chi utilizza la cattedra come mezzo di promozione professionale e relazionale ne risente di meno, resta "normale", mantiene un certo buonsenso, una certa serenità. Non si macera in scritti su una identità che non c'è. Si crea così una "fabbrica dei mostri" , nociva per i migliori, nel senso di "quelli che ci credono", che perdono la comprensione del senso comune,  o assolutizzano le proprie riflessioni di senso comune: come quella secondo cui ci sarebbe una "capacità contributiva di ciascuno" nascosta in qualche cassetto.  Così si spengono presto gli entusiasmi, assieme al passare degli anni, e resta solo il peggio, cioè pigrizia, gelosie, convenienza spicciola, meschinità, ripicche, dispetti, alienazioni mentali, confusioni. I più equilibrati della cosiddetta "accademia del diritto tributario" sono onesti avvocati, che cercano di darsi tono con la cattedra, ma che in realtà proprio nella professione trovano gli stimoli per mantenere un certo equilibrio, che altri hanno perso, oppure che hanno trovato in miserevoli tresche di potere accademico (non c'è cosa più triste degli uomini di sapere che si trasformano in uomini di potere), o sono  scivolati nella confusione mentale. Proprio per la inappagata ricerca di una identità che non trovano.

Le opportunità professionali di questa situazione confusionaria hanno fagocitato i più capaci in un vortice di professione, il che va benissimo, purchè si faccia anche una visione di insieme, che costituisca la pietra di paragone per gli operatori, per le classi dirigenti, per le istituzioni, per le associazioni professionali, per tutti quelli che altrimenti non possono elaborare queste spiegazioni.

Il problema è grave, perchè la tassazione aziendale non può vivere senza teorie, senza una testa. La cosa triste è che nella creazione di una teoria, per la società, gli studiosi non sono sostituibili, nè dai politici, nè dai giornalisti (vedi sole24ore), nè dagli economisti (cui sfugge l'aspetto giuridico), nè dagli editori (vedi frizzera, eutekne, tuttomap ed unoformat), nè dalle associazioni di categoria (Lucapacioli, CGIA di Mestre, assonime). Non a caso tutti parlano di fisco; ma le analisi di ampio respiro continuavano ad essere affidate a una pattuglia di economisti, fino a giornalisti, come Bortolussi o Ippolito.Se in un settore della convivenza sociale c'è bisogno di una teoria, e l'accademia fallisce, anche il settore della società per cui serviva la teoria, cioè la tassazione aziendale, è destinato a sgretolarsi. Senza una identità teorica, la sedicente "pratica" si è risolta in parafrasi disumane e spaventevoli, tecnicismi professionali, e appena ci si allontana da loro ci si avventura in generiche divagazioni sulla giustizia fiscale, lo stato, il mercato, la solidarietà, la proprietà, il gettito, l'uguaglianza,e via enumerando, alla portata di tutti gli studiosi della società in generale; che giustamente fanno continue, ma estemporanee, incursioni in materia fiscale, perchè ne avvertono l'enorme vuoto teorico, lasciato dagli esperti del settore.  

Rispetto a questo discorso, maledettamente serio per l'intero paese, le convenienze private dell'accademia di IUS 12 passano in secondo piano. Se la scomparsa della comunità accademica di ius 12 fosse utile per il paese non bisognerebbe esitare un secondo a dire di sì. Ma poi la teoria chi la farebbe? Distruggendo il luogo dove la teoria sarebbe dovuta nascere e non è nata, non si soddisfa certo la necessità sociale di una teoria. Neppure la si creerebbe con il discredito dell'accademia agli occhi degli altri studiosi della convivenza. Certo, sarebbe un discredito meritato, ma non sarebbe costruttivo. Però far capire alla società che non deve aspettarsi nulla dal mondo accademico così com'è oggi, e che non è un modello da imitare, potrebbe essere un punto di partenza. Per evitare ulteriori equivoci, disorientamenti e confusioni. Forse la necessaria fusione tra diritto ed economia può ripartire dall'economia; ma anche lì dentro, tramite l'economia pubblica, si disperdono in tutti i settori della convivenza sociale, analizzando bisogni, interessi e passioni umane con formule matematiche che presuppongono un inesistente uomo razionale.  Certo, almeno lì si pensa a creare una teoria senza distrazioni professionali. Ma forse all'interno di IUS 12 ci sono ancora le energie per la ricerca di una identità, nonostante la professione che tutti facciamo per il pane e anche (molto) companatico. Vedremo cosa fare di questi interrogativi amletici. Anche gli studiosi hanno un compito verso la società ma ci possono essere sfumature diverse sul modo migliore di svolgerlo..i rancori sono un lusso meschino e inutile. Dire che molti professori di diritto tributario pensano che il diritto sia quello che esce sulla gazzetta ufficiale è un discorso antipatico. E ancora più antipatico è dire che avrebbero bisogno di lezioni su cosa sia il diritto. Però qualche volta i discorsi antipatici sono necessari alla serenità della convivenza sociale. Può non piacere, ma per parlare di tributario, oggi, bisogna ripensare il ruolo dell'accademia, che sta dove stanno le idee utili a spiegare cosa accade nell'organizzazione sociale. Amicus Plato, sed magis amica veritas.

Commenti

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La perfezione consiste nell'imperfezio ne, così come l'imperfezione consiste nella perfezione.
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"...l’autodistruzione della tassazione aziendale".
Questo è il sottotitolo del lavoro di Lupi. Mi ha colpito, personalmente, la parola "autodistruzione”. Lo scenario che lascia presagire è dei peggiori. Nichilistico.
Un essere che si “auto distrugge” è un qualcosa che consapevolmente od inconspevolment e (anche se l'inconsapevole zza fa sempre parte della consapevolezza, visualizzabile come un insieme con un sott'insieme...) mette in moto un meccanismo (di auto regolamentazion e) che pone fine alla sua esistenza. Questo perché, l'esistenza, così come è non va bene, non è funzionale a se stessa ed all'ambiente in cui l'entità si trova.
Questo meccanismo, a mio modo di vedere, non è negativo, in quanto apre le porte, prepara il terreno, a qualche cosa di nuovo. Le riforme sono più quelle che avvengono per meccanismi di auto reset, di auto regolamentazion e, che quelle che vengono fatte in modo formale...Senza la morte non vi può essere rinascita.
Forse non serve evitare "l'auto distruzione", quanto, piuttosto, prendere consapevolezza di essa, per guardare oltre.
Costruzione di una teoria...è una frase che ritorna frequentemente nel testo elaborato dal Prof Lupi.
Ma forse, al posto della parola teoria si potrebbe utilizzare la frase: lettura della realtà, od, ancora, meglio: interpretazione della realtà. Riflettiamo: se noi diciamo "costruire una teoria" rischiamo di equivocare, cioè di esser portati a pensare (istintivamente) che così facendo creiamo al realtà. La realtà (anche sociale, anche tributaria) esiste di già di per sé, non c'è bisogno di crearla, non c'è bisogno di teorizzarla, basta
guardarla.
Ogni sguardo, poi, è sempre soggettivo: non esiste una realtà oggettiva. Infatti, lo sguardo crea, nel senso che senza una coscienza che osserva non può esistere l'oggetto osservato (più che concetti filosofici, questi, ho scoperto, sono gli ultimi approdi della fisica quantistica).
Se così è, allora, (prevalendo la soggettività) potremmo anche parlare di sguardo soggettivo, appunto e, quindi, di interpretazione.
Ed allora, se anche il concetto di realtà è relativo e siccome tutto è in movimento, in divenire, (osservatore ed ambiente osservato si muovono / evolvono sempre all'unisono) si potrebbe utilizzare il termine dinamica del tipo: "interpretazione delle dinamiche tributarie"; ma, forse, ancor meglio "interpretazione dei comportamenti sociali tributari".
Quanto appena scritto apre, poi, le porte ad un’ulteriore riflessione determinante, insita, mi sembra, nella natura dell'uomo: il "giudizio", ma, forse, è meglio dire, il "sentire" dentro, se quello che guardo va bene oppure no: lo sguardo introduce sempre qualche cosa nella persona all'osservatore. Quindi l'asetticità nel guardare non esiste. Ho sempre una reazione, forse di approvazione o di disaprovvazione. Ma, riflettiamo bene: perché devo giudicare, approvare o disapprovare:
perché, forse, devo esistere? Devo, ancora meglio, sopravvivere? Sì, penso proprio sia così: è buono (lo approvo) tutto ciò che (anche molto indirettamente) mi permette di (sopra) vivere, e viceversa.
Ed allora "ritorniamo daccapo": anche l'interpretazio ne (osservazione) della realtà sociale tributaria è, sotto sotto, guidata da quel criterio (personalissimo) ancestrale: la sopravvivenza.
Infine: se siamo esseri simili / uguali dovremmo avere le stesse reazioni nel sentire (consapevolezza --> coscienza) riguardo a ciò che (ci) accade nell'ambiente in cui viviamo (esistiamo). Questa, forse, è la coscienza comune, il diritto naturale? Sto parlando della coscienza pura (di quella non sovra - strutturata dalle "credenze").
Si tratta di un meccanismo molto pratico: come detto il suo fine è la sopravvivenza.
Dopo di che abbiamo un giudizio (funzionale a quel fine): di approvazione o disapprovazione, dal quale consegue un'azione.
Il funzionamento, più o meno, potrebbe essere questo:
ambiente --> fatto (es. pubblicazione legge su G.U + accadimento nel mondo
reale di un effetto tangibile ad essa collegato) ---> consapevolezza --->
sopravvivenza-- ->coscienza---> approvazione / disapprovazione ---> azione, (la quale azione, ad esempio, può consistere nell’adempimento o nell’evasione).
Il fenomeno tributario, perciò, anche se fenomeno complesso, essendo un aspetto del vivere umano, non può sfuggire a queste logiche di fondo.



avatar mauro franchi
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Una delle diverse spiegazioni della complicazione del sistema fiscale risiede nel fatto che, sin dagli albori, gli studiosi hanno avvertito la necessità di realizzare una "giusta imposta o giusto sistema tributario" attraverso la personalità e la progressività. Ora, dopo, circa 100 anni, si possono trarre le prime, seppure parziali e provvisorie, conclusioni: la realtà, nella nostra area geografica, sconfessa la teoria. Le imperfezioni del sistema (che sono la regola) non permettono di raggiungere lo scopo.
Insomma, la realtà sociale è un'altra. Allora, conseguenzialme nte, si comincia a prenderne atto. E' un meccanismo di autoregolamenta zione che, seppur andando a zig - zag, per opera di più o meno illuminati,
più o meno consapevoli esseri umani (che con un ruolo od un altro, sono chiamati a far progredire la società, magari anche procedendo come i gamberi: due passi avanti ed uno indietro), sta spostando,
sembra, il sistema dalla progressività alla proporzionalità e dal reddito tassato al reddito consumato.
E' la stessa cosa che dire: diminuisco le imposte dirette ed aumento le indirette generali sui consumi. In fondo, le imposte proporzionali non sono molto "ingiuste" anche se teoricamente non sono perfette. Quanto detto apre le porte, poi, ad un'ulteriore riflessione su quanto si dibatte sui media in questi giorni, che è proprio una paventata riforma che dovrebbe, appunto, fare leva sulle imposte sui consumi. C'è da chiedersi, al riguardo, quali possano essere effettivamente i margini di manovra, visto che l'iva è un'imposta europea con vincoli di un certo tipo e che in periodi di crisi, (stagnazione prolungata (lustri) tipica delle economie opulente occidentali) aumentare la tassazione sui consumi non è mai opportuno.
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