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Home Controlli e contenzioso sospensione sentenza di appello (e di primo grado)
sospensione sentenza di appello (e di primo grado) PDF Stampa E-mail
Controlli e contenzioso
Scritto da Raffaello Lupi   
Mercoledì 22 Giugno 2011 18:18

Non so ho capito bene la sentenza della corte costituzionale sulla sospensione cautelare oltre il primo grado: Mi pare che però essa confermi la tendenza della corte costituzionale di essere "giudice del rigetto" ed effettivamente non ci sarebbe nulla di male a considerare la dichiarazione di incostituzionalità come

una "extrema ratio". Affermando che sul punto pare insindacabile di volta in volta  la discrezionalità legislativa, di cui i giudici "a quibus" non hanno indicato contraddizioni intrinseche o ingiustificate mortificazioni dei valori costituzionali. Senza questi vizi la legge dovrebbe restare ferma, e lo scontrodovrebbe essere proprio sulla presenza o meno di queste patologie, appunto  con la discrezionalità legislativa sullo sfondo. Però bisognerebbe motivare "senza rete", mettersi in gioco, e quindi spesso per trarsi di impaccio, si ricorre a espedienti manifesti, come in questo caso. In cui il contribuente aveva vinto in primo grado e perso in regionale. Allora, in questo caso specifico, si è tentata una via diversa, anche a costo di seminare dubbi e perplessità nell'universo mondo. Cioè la strada dell'espediente dialettico sui richiami normativi dal contenzioso tributario al codice civile. Senza arrendersi all'evidente interpretazione sistematica secondo  cui il contenzioso tributario non consente sospensioni dell'esecuzione oltre il primo grado. E forse è ragionevole, visto che alla base c'èun atto amministrativo. Invece la sentenza esposta qui di seguito si arrampica sugli specchi per censurare i giudici rimettenti che avrebbero omesso di valutare se esiste una interpretazione. mentre sembra chiaro che quello del processo tributario è un sistema chiuso. Dove una precedente sentenza aveva già respinto ogni censura di costituzionalità. Il diritto vivente sul punto manca semplicemente perchè nessuno finora aveva provato a sostenere de iure condito la sospendibilità oltre il primo grado. Misteri della corte.

 

Sent. n. 217 del 17 giugno 2010 (ud. del 9 giugno 2010)
della Corte Cost. – Pres. Amirante, Rel. Gallo
Contenzioso tributario -  Tutela  cautelare  -  Sentenza  della  Commissione
tributaria    regionale    di     accoglimento     dell'appello     proposto
dall'amministrazione finanziaria soccombente in prime cure -  Esecuzione  in
pendenza di ricorso  per  cassazione  -  Istanza  del  contribuente  per  la
sospensione  dell'esecuzione  della  sentenza   e   dei   conseguenti   atti
dell'amministrazione finanziaria e dell'agente della riscossione (in specie,
iscrizione a ruolo dell'intero tributo e iscrizione di  ipoteca  preordinata
all'espropriazione immobiliare) - Ritenuta esclusione della tutela cautelare
anche nel caso in cui la relativa esigenza si manifesti solo in seguito alla
pronuncia di secondo grado - Omessa previsione che la  sentenza  di  appello
tributaria, impugnata con ricorso per cassazione, possa essere  sospesa,  in
unico grado cautelare, allorquando ivi sopravvenga, per la prima  volta,  il
pericolo di un grave ed irreparabile danno, con carattere di irreversibilità
e non altrimenti evitabile - Art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992
    Ritenuto in fatto - 1. – Nel  corso  di  un  procedimento  instaurato  a
séguito dell’istanza proposta  da  un  contribuente  per  ottenere,  in  via
cautelare, la sospensione dell’esecuzione  di  una  sentenza  tributaria  di
secondo grado, la  Commissione  tributaria  regionale  della  Campania,  con
ordinanza pronunciata il 13 ottobre 2008, ha sollevato – in riferimento agli
artt. 3,  23,  24,  111  e  113  della  Costituzione,  nonché,  quale  norma
interposta all’art. 10 Cost., in riferimento  all’art.  6,  comma  1,  della
Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell’uomo  e  delle  libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata ed eseguita  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità dell’art.  49,  comma
1, del decreto legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul
processo  tributario  in  attuazione  della  delega  al  Governo   contenuta
nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413), il  quale  stabilisce
che «Alle  impugnazioni  delle  sentenze  delle  commissioni  tributarie  si
applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di
procedura civile, escluso l’art. 337  e  fatto  salvo  quanto  disposto  nel
presente decreto».
    2. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto  di  fatto,
che: a) con propria sentenza n. 417/07/2004, emessa in grado  di  appello  e
depositata il 27 aprile 2005, aveva rigettato – in riforma della sentenza di
primo grado ed in  accoglimento  del  gravame  proposto  dall’Agenzia  delle
entrate – il  ricorso  proposto  da  un  contribuente  avverso  l’avviso  di
accertamento,  ai  fini  dell’IRPEF,  dei  redditi   derivanti   dalla   sua
partecipazione ad una società di persone nell’anno 1993; b) il  contribuente
aveva successivamente presentato ricorso per cassazione («depositato  il  20
giugno 2007») avverso la predetta sentenza di appello,  deducendo  che  solo
nel  2007  aveva  avuto  notizia,  in  occasione   della   ricezione   della
notificazione di una cartella  di  pagamento,  dell’esistenza  della  citata
sentenza di appello (e, quindi, del  correlativo  giudizio)  riguardante  il
sopra menzionato avviso di accertamento; c) il ricorso  per  cassazione,  in
particolare, era basato sull’assunto che nel secondo grado di  giudizio  era
stato violato il contraddittorio, perché la notifica dell’atto  di  appello,
avvenuta a mezzo posta con la consegna del plico al portiere dell’appellato,
non era stata seguita dall’invio di altra lettera raccomandata per informare
il destinatario  dell’avvenuta  notificazione  e  l’appellato  contribuente,
pertanto, non aveva avuto notizia del proposto gravame; d)  nelle  more  del
giudizio di cassazione,  il  medesimo  contribuente  aveva  presentato  alla
Commissione  tributaria  regionale  un’istanza  di   sospensione,   in   via
cautelare,  dell’esecuzione  dell’impugnata  sentenza  di   secondo   grado,
invocando l’applicazione dell’art. 373 cod. proc. civ. e degli artt. 47,  49
e 61 del d.lgs. n. 546  del  1992  e  deducendo  che  dall’esecuzione  della
sentenza poteva derivargli grave ed irreparabile danno, a séguito sia  della
notificazione nei suoi confronti della  menzionata  cartella  di  pagamento,
basata sull’avviso di accertamento di cui  alla  sentenza  di  appello,  sia
della comunicazione (con nota del 25 luglio 2008)  dell’eseguita  iscrizione
ipotecaria immobiliare effettuata – ai sensi  dell’art.  77  del  d.P.R.  29
settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla  riscossione  delle  imposte  sul
reddito) – a garanzia, ad un tempo, del credito tributario risultante  dalla
suddetta sentenza di appello (pari ad € 210.988,62), nonché di un  ulteriore
credito, per altro titolo (pari ad altri € 342.951,48).
    3. – Il giudice rimettente premette altresí, in punto di  diritto,  che:
a) il denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n.  546  del  1992  esclude
espressamente l’applicabilità al  processo  tributario  dell’art.  337  cod.
proc. civ. e quindi, secondo «la giurisprudenza  assolutamente  prevalente»,
esclude  l’applicabilità  anche  delle  disposizioni  menzionate   da   tale
articolo, tra le quali è compreso l’art.  373  cod.  proc.  civ.,  il  quale
prevede, al secondo  periodo  del  primo  comma,  che  «il  giudice  che  ha
pronunciato la sentenza  impugnata  può,  su  istanza  di  parte  e  qualora
dall’esecuzione possa derivare grave ed  irreparabile  danno,  disporre  con
ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o  che  sia  prestata
congrua cauzione»; b) l’interpretazione della disposizione censurata fornita
da tale giurisprudenza, secondo  cui  l’art.  373  cod.  proc.  civ.  non  è
applicabile al processo tributario, costituisce «fedele  applicazione  delle
regole ermeneutiche»; c) nella specie, «il rischio di danno irreparabile (in
presenza di una sentenza  annullatoria  dell’accertamento  in  primo  grado)
nasce per la prima volta dalla sentenza di appello  che  ha  “ribaltata”  la
prima sentenza, sicché sulla domanda di cautela (che non poteva  che  essere
formulata dopo la sentenza di appello)  mai  vi  è  stata  la  pronuncia  di
giudice (né mai in precedenza avrebbe potuto esservi)».
    4. − Tanto premesso, il  giudice  a  quo  afferma  che  la  disposizione
denunciata víola: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo
comma, Cost., perché nel caso in cui – come nella specie – la  pronuncia  di
appello  abbia  riformato  la  sentenza  di  primo   grado   favorevole   al
contribuente, irragionevolmente esclude la tutela  cautelare  «a  fronte  di
atti impositivi esecutivi per la prima volta emessi  in  esecuzione  di  una
sentenza di secondo grado» e, pertanto, consente il «sacrificio  inevitabile
ed irreparabile» dei diritti del contribuente,  nonostante  che  il  sistema
processuale sia stato «creato a garanzia di diritti soggettivi tributari  (a
versare il giusto tributo)» e che la giurisprudenza della Corte di giustizia
CE tenda ad «ampliare  la  sfera  della  tutela  cautelare  e  ad  affermare
l’esigenza della effettiva e sostanziale tutela dei diritti derivanti  dalla
normativa comunitaria» (sentenze: Factorame del 19  giugno  1990,  in  causa
C-231/89; Zuckerfabrik del 21 febbraio 1991, in cause  C-143/88  e  C-92/88;
Atlanta del 9 novembre  1989,  in  causa  C-465/92;  Kofisa  Italia  dell’11
gennaio 2001, in causa C-1/99); b) gli artt. 23 e 24 Cost., perché  consente
«l’assoggettamento ad esecuzione forzata […] senza che in base alla legge il
debitore  possa  adire  un  giudice  in  sede  cautelare»,  pur  essendo  la
disponibilità  di  misure  cautelari  componente  essenziale  della   tutela
giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost. (come sottolineato da  numerose
pronunce  della  Corte  costituzionale);  c)  l’art.  113   Cost.,   perché,
escludendo «aprioristicamente» un rimedio cautelare avverso l’esecuzione  di
una sentenza di secondo grado che abbia riformato la sentenza di primo grado
favorevole al contribuente, per ciò  stesso  esclude  anche  che  la  tutela
giurisdizionale dei diritti ed interessi  legittimi  sia  «sempre»  ammessa,
come invece richiesto dall’evocato parametro costituzionale;  d)  gli  artt.
111 Cost. e 6, comma 1, della Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 4  novembre  1950,
«in relazione all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di  giustizia  non  può
tradursi, nelle  more  della  sentenza  della  Corte  di  cassazione»  sulla
sentenza di appello impugnata, «in perdita irreversibile del patrimonio  del
contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione».
    Il rimettente osserva, infine, che  alla  prospettata  dichiarazione  di
illegittimità costituzionale della  disposizione  denunciata  non  ostano  i
precedenti giurisprudenziali della Corte costituzionale  concernenti  l’art.
49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (sentenza n. 165 del 2000;  ordinanze  n.  217
del 2000, n. 325 del 2001 e n. 119 del 2007).
    In particolare, con la sentenza n. 165 del 2000 la Corte  costituzionale
ha affermato che la previsione di mezzi di tutela cautelare  nelle  fasi  di
giudizio successive alla pronuncia di merito sulla domanda, in favore  della
parte soccombente nel merito, deve ritenersi  rimessa  alla  discrezionalità
del legislatore. Tuttavia – osserva  il  giudice  a  quo  –  tale  pronuncia
riguarda la «tutela ordinaria» del contribuente  in  sede  cautelare  e  non
quella «eccezionale», la cui esigenza sorga cioè, come nel caso  di  specie,
solo a séguito della sentenza di appello  che,  riformando  la  sentenza  di
primo grado, abbia rigettato il ricorso del  contribuente  avverso  un  atto
impositivo.
    Con le ordinanze n. 217 del 2000 e n. 325 del 2001, la medesima Corte ha
rilevato, poi, che gli art. 3 e 24 Cost. non impongono né  il  doppio  grado
cautelare né l’uniformità tra i vari tipi di processo,  con  la  conseguenza
che la previsione di cui all’art.  373  cod.  proc.  civ.  può  ben  restare
confinata nel processo civile. Tuttavia – osserva  ancora  il  rimettente  –
nella presente questione non si invocano né «un parallelismo […]  di  tutela
cautelare tra  processo  tributario  e  processo  civile  o  anche  processo
amministrativo», «né il doppio grado cautelare»,  ma  si  richiama  solo  la
necessità di garantire nel processo  tributario  una  tutela  cautelare,  in
unico grado, quando per  la  prima  volta,  a  séguito  della  pronuncia  di
appello, «ne sorgano i presupposti e l’esigenza».
    Con l’ordinanza n. 119 del 2007,  infine,  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato  la  manifesta  infondatezza  della  questione  sottopostale   in
riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sia perché nel giudizio a quo l’istanza
di  sospensione  era  stata  reiterata  dopo  il  suo  rigetto,  in   limine
dell’appello; sia perché «l’oggetto del  provvedimento  di  sospensione  non
potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l’impugnazione, bensí semmai
il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata  in  primo
grado». Tuttavia – argomenta il medesimo rimettente – la sentenza  di  primo
grado, nel caso in  esame,  non  è  stata  sfavorevole  al  contribuente  e,
pertanto, a differenza dell’ipotesi esaminata dalla citata ordinanza n.  119
del 2007, l’istanza di sospensione non è stata né proposta né  rigettata  in
sede di appello, ma è stata proposta solo dopo la sentenza di secondo grado,
con  riferimento  proprio  al  «“provvedimento  impositivo”,   ossia»   alla
«iscrizione a ruolo effettuata dall’Agenzia (da cui, a sua volta, deriva  la
iscrizione ipotecaria effettuata dall’agente della riscossione) in quanto  è
tale iscrizione (e la  sua  attuazione  mediante  ipoteca  e  consequenziale
espropriazione forzata) a costituire il sopravvenuto pericolo di danno grave
ed irreparabile».
    5. − In ordine alla rilevanza della sollevata questione,  il  rimettente
afferma che «sussisterebbero nella specie i presupposti  per  l’accoglimento
dell’istanza di sospensione sia dell’efficacia  dell’impugnata  sentenza  di
secondo grado, sia dell’efficacia della iscrizione a ruolo e dell’iscrizione
di ipoteca emessi, in via consequenziale e derivata ex  art.  68,  comma  1,
lett. c), d.lgs. nr. 546/1992». Ad avviso del giudice a quo sussisterebbero,
infatti, i presupposti del fumus boni iuris e  del  periculum  in  mora:  a)
quanto al primo, perché, in base ad  una  «delibazione  sommaria  incidenter
tantum e limitatamente ai […] fini cautelari»,  il  ricorso  per  cassazione
proposto dal contribuente è fondato,  posto  che  «il  mancato  invio  della
raccomandata di conferma» della  notificazione  effettuata  «tramite  agente
postale  con  consegna  […]  al  portiere»  appare  «in  contrasto  con   le
disposizioni di cui agli artt. 139, comma 4, c.p.c. e  16,  comma  2,  e  61
d.lgs. nr. 546/1992 […], 60, comma 1, D.P.R. nr. 600/1973»,  soprattutto  in
considerazione del  fatto  che  «l’art.  37,  comma  27,  lett.a)  d.l.  nr.
223/2006, conv. con modifiche in legge  nr.  248/2006  ha  chiarito  che  le
notifiche a mezzo di messi di atti o avvisi di accertamento, se effettuata a
mani di accipiens diverso dal destinatario, deve essere seguita  dalla  c.d.
seconda raccomandata» e che «siffatta esigenza di una  seconda  raccomandata
appare ancora piú pregnante, in caso di notifica a mezzo  posta,  quando  si
tratti di notifica di atti di appello»;  b)  quanto  all’altro  presupposto,
perché  è  evidente  il  pericolo  del  grave  ed  irreparabile  danno  «che
deriverebbe al contribuente dalla vendita forzata dei 18 immobili  ipotecati
[…]  e  dalla  consequenziale  irrecuperabilità  di  quei  beni,  una  volta
coattivamente alienati», a fronte dell’adeguata salvaguardia  dell’interesse
dell’amministrazione finanziaria tramite la «garanzia reale» operante  anche
nel periodo  di  eventuale  sospensione  dell’efficacia  della  sentenza  di
secondo grado  e  della  consequenziale  iscrizione  ipotecaria,  fino  alla
decisione della Corte di cassazione. In proposito,  il  rimettente  aggiunge
che l’autonoma impugnabilità del provvedimento di  iscrizione  ipotecaria  –
prevista dal comma 1, lettera e-bis), dell’art. 19 del  d.lgs.  n.  546  del
1992 –  non  fa  venir  meno  la  rilevanza  della  questione,  perché  tale
impugnazione può essere proposta solo per  i  vizi  propri  dell’iscrizione,
senza che  il  giudice  possa  sindacare  «il  presupposto  di  essa  (nella
fattispecie, la sentenza di secondo grado  […]  impugnata  con  ricorso  per
cassazione)».
    6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato  e  difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in  giudizio,  chiedendo
che la questione sia dichiarata infondata.
    La  difesa  dello  Stato  osserva  che  la  Corte  costituzionale  si  è
costantemente pronunciata nel senso  della  legittimità  costituzionale  del
denunciato art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (ordinanze n. 119 e n.  4  del
2007; n. 325 del 2001; n. 310, n. 217 e n. 165 del 2000) e «ritiene che tale
orientamento debba essere confermato anche nel presente caso», senza che  il
giudice possa sindacare «il  presupposto  di  essa  (nella  fattispecie,  la
sentenza di secondo  grado  […]  impugnata  con  ricorso  per  cassazione)».
Deduce, al riguardo, che la suddetta disposizione non si pone  in  contrasto
con alcuno dei parametri costituzionali evocati dal rimettente: a)  non  con
l’art. 3 Cost. – sotto l’aspetto della parità  di  trattamento  rispetto  ad
altri sistemi processuali e della  ragionevolezza  –,  perché  non  sussiste
alcun principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità tra  i
vari tipi di processo (vengono citate le sentenze n. 18 del 2000 e n. 82 del
1996; nonché l’ordinanza n. 325 del 2001) e perché la  spiccata  specificità
del processo tributario, nel quale occorre ricercare il contemperamento  tra
la preminente esigenza  pubblica  di  assicurare  il  flusso  delle  entrate
tributarie  e  le  pretese  del  contribuente,   rende   non   irragionevole
l’attribuzione  di  una  minore  ampiezza  di  poteri  cautelari  all’organo
giudicante  tributario,  rispetto   a   quella   dei   giudici   civili   od
amministrativi;  b)  non  con   l’art.   23   Cost.,   perché   la   pretesa
dell’amministrazione tributaria trova il suo fondamento proprio nella legge;
c) non con l’art. 24 Cost., perché, come sottolineato  dalla  giurisprudenza
costituzionale, «la garanzia costituzionale  della  tutela  cautelare»  deve
ritenersi «imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo,
una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva –  la  domanda
[…] ovvero la respinga» (sentenze n. 217 e n. 165 del 2000; ordinanza n. 325
del 2001) e perché a nulla rileva «che, nel caso di specie,  non  sia  stata
possibile, per l’andamento del processo, una doppia tutela cautelare  avendo
avuto il contribuente ragione nel primo grado e torto nel secondo»;  d)  non
«con l’art. 111 Cost.», perché tale parametro è stato erroneamente evocato –
in luogo dell’art. 117, primo comma, Cost.  –  con  riferimento  all’obbligo
internazionale derivante dall’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo
(sentenze n. 349 e n. 348 del 2007); e) non con l’art.  113  Cost.,  «atteso
che il diritto azionato dalla parte pubblica, che si  vuole  paralizzare,  è
attualmente all’esame della  Corte  di  cassazione».  L’Avvocatura  generale
dello Stato  sottolinea  infine,  sotto  il  profilo  della  rilevanza,  che
l’iscrizione ipotecaria immobiliare effettuata con riferimento alla sentenza
di appello  impugnata  per  cassazione  costituisce  un  atto  autonomamente
impugnabile e, pertanto, può essere sospesa in via cautelare,  ove  da  essa
possa derivare un danno grave ed irreparabile.
    Considerato in diritto - 1. – La Commissione tributaria regionale  della
Campania dubita – in riferimento agli artt. 3,  23,  24,  111  e  113  della
Costituzione,  nonché,  quale  norma  interposta  all’art.  10   Cost.,   in
riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata ed eseguita con  legge  4  agosto  1955,  n.  848  –  della
legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992,
n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), il
quale stabilisce che «Alle impugnazioni  delle  sentenze  delle  commissioni
tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II
del codice di procedura civile, escluso l’art.  337  e  fatto  salvo  quanto
disposto nel presente decreto».
    La suddetta Commissione tributaria afferma che la norma denunciata víola
gli evocati parametri costituzionali, «nella parte in cui  non  prevede,  in
unico grado,  la  possibilità  di  sospensione  della  sentenza  di  appello
tributaria,  impugnata  con  ricorso   per   cassazione,   allorquando   ivi
sopravvenga, per la prima volta, il pericolo di un  “grave  ed  irreparabile
danno”, con carattere di irreversibilità e  non  altrimenti  evitabile».  In
particolare, secondo la medesima Commissione, la disposizione  censurata  si
pone in contrasto con: a) il principio di ragionevolezza di cui all’art.  3,
primo comma, Cost., perché, nel caso in cui la pronuncia  di  appello  abbia
riformato  la  sentenza  di  primo   grado   favorevole   al   contribuente,
irragionevolmente esclude la tutela cautelare «a fronte di  atti  impositivi
esecutivi per la prima volta emessi in esecuzione di una sentenza di secondo
grado»  sfavorevole  all’appellato  e,  pertanto,  consente  il  «sacrificio
inevitabile ed irreparabile» dei diritti del contribuente; b) gli artt. 23 e
24 Cost., perché prevede l’assoggettamento ad esecuzione forzata  […]  senza
che in  base  alla  legge  il  debitore  possa  adire  un  giudice  in  sede
cautelare», pur essendo la  disponibilità  di  misure  cautelari  componente
essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 Cost.; c) gli
artt. 111 Cost. e 6, comma 1, della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950 (ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848), «in relazione
all’art. 10 Cost.», perché «il ritardo di giustizia non può tradursi,  nelle
more della sentenza della Corte di cassazione» avente ad oggetto la sentenza
di  appello  impugnata,  «in  perdita  irreversibile  del   patrimonio   del
contribuente che, in ipotesi, risulterà avere ragione»; d) l’art. 113 Cost.,
perché   «aprioristicamente   impedisce   un   rimedio   cautelare   avverso
l’attuazione di una pretesa tributaria, fondata su una sentenza  di  secondo
grado, che abbia  “ribaltato”  in  appello,  una  sentenza  di  primo  grado
pienamente favorevole al contribuente» e, pertanto, si pone in contrasto con
il precetto costituzionale secondo cui la tutela giurisdizionale dei  propri
diritti ed interessi legittimi è «sempre» ammessa.
    2. – La questione è inammissibile per tre distinti motivi.
    2.1. – Il primo motivo di inammissibilità  discende  dal  fatto  che  il
rimettente, nonostante la mancanza di un diritto vivente sul punto,  non  ha
esperito alcun tentativo di interpretare la disposizione censurata nel senso
che essa consenta l’applicazione al processo  tributario  della  sospensione
cautelare  prevista  dall’art.  373  cod.  proc.   civ.,   con   conseguente
insussistenza  del  prospettato  contrasto   con   gli   evocati   parametri
costituzionali.
    Il giudice a quo muove da due premesse interpretative:  una,  esplicita,
per la quale la denunciata disposizione vieta espressamente  l’applicazione,
nel processo tributario, della sospensione cautelare di cui al  citato  art.
373 cod. proc. civ.; l’altra,  implicita,  per  la  quale,  ove  si  potesse
prescindere dal denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del  1992,
la menzionata sospensione cautelare sarebbe pienamente  compatibile  con  la
complessiva disciplina del processo tributario.
    La prima di tale premesse, tuttavia, non è argomentata in alcun modo dal
giudice  rimettente,  il  quale,  al  riguardo,  si  limita   a   richiamare
genericamente la «giurisprudenza assolutamente prevalente» e  ad  affermare,
altrettanto  genericamente,  che  tale  interpretazione  della  disposizione
censurata  deriverebbe,  secondo  una  «fedele  applicazione  delle   regole
ermeneutiche», dal divieto di estendere al processo  tributario  l’art.  337
cod. proc. civ., il quale richiama, appunto, l’art. 373 dello stesso codice.
Il rimettente, pertanto, omette di valutare se  la  disposizione  denunciata
sia interpretabile diversamente. Non tiene conto, infatti, che: a) non  v’è,
in  proposito,  alcuna  pronuncia  della  Corte  di  cassazione,   ma   solo
contrastanti orientamenti della giurisprudenza di merito, che non  assurgono
a diritto vivente; b) il contenuto normativo dell’art. 337 cod.  proc.  civ.
(inapplicabile al processo tributario, per l’espresso disposto  della  norma
censurata) è costituito da una regola («L’esecuzione della  sentenza  non  è
sospesa per effetto dell’impugnazione di essa»)  e  da  una  eccezione  alla
stessa regola («salve le disposizioni degli artt. […] 373 […]»);  c)  l’art.
373 consta anch’esso, al primo comma, di  una  regola  (primo  periodo:  «Il
ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza») e  di  una
eccezione (secondo periodo: «Tuttavia  il  giudice  che  ha  pronunciato  la
sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione  possa
derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile
che l’esecuzione sia sospesa o  che  sia  prestata  congrua  cauzione»);  d)
l’inapplicabilità al processo  tributario  –  in  forza  della  disposizione
censurata – della regola, sostanzialmente identica, contenuta nell’art.  337
cod. proc. civ. e nel primo periodo del  primo  comma  dell’art.  373  dello
stesso codice, non comporta necessariamente  l’inapplicabilità  al  processo
tributario anche delle sopraindicate “eccezioni” alla regola e, quindi,  non
esclude di per  sé  la  sospendibilità  ope  iudicis  dell’esecuzione  della
sentenza di appello impugnata per cassazione.
    Da tale possibile interpretazione, alternativa a quella  immotivatamente
adottata dal rimettente, conseguirebbe che  il  comma  1  dell’art.  49  del
d.lgs. n. 546 del 1992 non costituisce ostacolo normativo  ad  applicare  al
processo tributario l’inibitoria cautelare di cui all’art.  373  cod.  proc.
civ. e che, pertanto – nella stessa prospettiva del giudice a quo, il  quale
ritiene l’art. 373 cod. proc. civ. astrattamente compatibile con il processo
tributario  –,  la  sollevata  questione  sarebbe  irrilevante.  Il  mancato
tentativo  di  una  interpretazione   costituzionalmente   orientata   della
disposizione denunciata si risolve, dunque,  nella  carenza  di  motivazione
sulla rilevanza della questione e nella  conseguente  inammissibilità  della
questione medesima.
    2.2. – Il secondo motivo di  inammissibilità  discende  dal  fatto  che,
contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, nella specie non  sussiste
il requisito del fumus boni iuris dell’istanza cautelare.
    In proposito, il giudice a quo osserva che  il  ricorso  per  cassazione
proposto dal contribuente avverso la sentenza tributaria  di  secondo  grado
sarebbe fondato (sia pure in base ad una sommaria  delibazione),  perché  il
contraddittorio nel giudizio di appello sarebbe stato  violato  per  effetto
dell’illegittimità della  notificazione  dell’atto  di  appello,  effettuata
«tramite agente  postale  con  consegna  […]  al  portiere»  e  non  seguita
dall’«invio della raccomandata  di  conferma»  della  notificazione  stessa,
previsto dalla legge.
    Tuttavia il giudice rimettente non considera  che  la  notificazione  di
atti a mezzo del servizio postale, ivi compresi  gli  atti  di  appello  nel
processo tributario, è regolata dall’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n.
890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni  a  mezzo  posta
connesse con la notificazione di atti giudiziari). In relazione alle diverse
formulazioni  di  tale   articolo,   derivanti   dalle   sue   modificazioni
legislative, occorre distinguere, per il caso di consegna del piego  postale
al portiere dello stabile del destinatario, tra le notificazioni  effettuate
anteriormente al 1° marzo 2008 e quelle effettuate a partire da  tale  data,
cioè dalla data di entrata in vigore del comma  2-quater  dell’art.  36  del
decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha introdotto il comma 8 del citato  art.
7 della legge n. 890 del 1982). Nella prima ipotesi  (cioè  per  il  periodo
anteriore al 1° marzo 2008), la notificazione si perfeziona con la  consegna
del piego al portiere; nell’altra ipotesi, invece, la legge prevede, dopo la
consegna del piego al portiere, anche  l’invio  al  destinatario,  da  parte
dell’agente postale, di una lettera raccomandata contenente la «notizia  […]
dell’avvenuta notificazione». In relazione al caso in esame, che concerne  –
come sopra visto – la consegna al portiere del piego  contenente  l’atto  di
appello, la suddetta modificazione dell’art. 7 della legge n. 890  del  1982
non ha effetti retroattivi, come espressamente stabilito dal  primo  periodo
del comma 2-quinquies dell’art. 36 del citato decreto-legge n. 248 del  2007
e come riconosciuto anche dalla  giurisprudenza  di  legittimità  (Corte  di
cassazione civile, sentenza n. 23589 del  2008).  Nella  specie,  l’atto  di
appello è stato notificato sicuramente prima del 1° marzo  2008,  perché  la
correlativa sentenza di appello risulta pronunciata nel  2004  e  depositata
nel 2005. Ne deriva che alla notificazione a mezzo posta  di  tale  atto  di
appello  era  applicabile  ratione  temporis  la   formulazione   originaria
dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, secondo la quale l’agente  postale,
dopo la consegna del piego al portiere, non doveva inviare  al  destinatario
alcuna lettera raccomandata. Di qui l’infondatezza dell’istanza cautelare e,
per  l’effetto,  l’inammissibilità,   per   irrilevanza,   della   sollevata
questione.
    2.3 – Il  terzo  motivo  di  inammissibilità  discende  dal  fatto  che,
diversamente da quanto ulteriormente affermato dal rimettente, nella  specie
non v’è neppure la prova del requisito del periculum in mora.
    Al riguardo, il rimettente afferma che tale istanza soddisfa il suddetto
requisito, perché: a) è stata notificata al  contribuente  una  cartella  di
pagamento comprensiva del debito tributario  risultante  dalla  sentenza  di
appello  impugnata  per  cassazione;  b)  è  stata  comunicata  allo  stesso
contribuente l’avvenuta iscrizione  ipotecaria  effettuata  a  garanzia  del
soddisfacimento, ad un tempo, sia del  debito  tributario  risultante  dalla
medesima sentenza di appello, sia di un ulteriore debito, per altro  titolo,
di importo di poco superiore;  c)  la  cartella  e  l’iscrizione  ipotecaria
possono essere impugnate (ed eventualmente sospese in via cautelare) solo in
relazione a vizi propri di tali  atti  e  non  in  relazione  all’invalidità
dell’avviso di accertamento da essi presupposto ed oggetto della statuizione
contenuta nella sentenza di appello impugnata per cassazione.
    Va tuttavia rilevato che tali affermazioni del rimettente non  investono
la caratteristica propria  ed  essenziale  del  periculum  in  mora  di  cui
all’art. 373 cod. proc. civ., cioè la sussistenza  di  un  «danno  grave  ed
irreparabile»  derivante  dall’esecuzione  della  sentenza   impugnata   per
cassazione. Il rimettente,  infatti,  non  fornisce  alcuna  motivazione  in
ordine né alla situazione economica del debitore, né  alla  possibilità  per
quest’ultimo di evitare, nelle more, l’esecuzione  forzata  immobiliare,  né
agli effetti lesivi irreversibili ed  inadeguatamente  ristorabili  di  tale
esecuzione.  Siffatta  motivazione  sarebbe  stata   necessaria   anche   in
considerazione  del  consolidato  orientamento  giurisprudenziale  (tale  da
costituire “diritto  vivente”),  secondo  il  quale,  l’«irreparabilità  del
danno» di cui all’art. 373 cod. proc. civ. va intesa, quantomeno, nel  senso
di un intollerabile scarto  tra  il  pregiudizio  derivante  dall’esecuzione
della  sentenza  nelle  more  del  giudizio  di  cassazione  e  le  concrete
possibilità  di  risarcimento  in  caso  di  accoglimento  del  ricorso  per
cassazione. Ne  consegue  l’omessa  motivazione  circa  la  sussistenza  del
periculum in mora e l’ulteriore profilo di inammissibilità  della  sollevata
questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza.
    3.  –  La  riscontrata  inammissibilità   della   questione   impedisce,
ovviamente, l’esame del merito e, in particolare, non consente  di  valutare
la richiesta del rimettente di procedere ad un riesame della  giurisprudenza
di questa Corte relativa all’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 546  del  1992,
in tema di tutela cautelare nel processo tributario.

    P.Q.M. - LA CORTE COSTITUZIONALE
    dichiara  inammissibile  la  questione  di  legittimità   costituzionale
dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al  Governo
contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n.  413),  sollevata
dalla  Commissione  tributaria  regionale  della  Campania  con  l’ordinanza
indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 111 e  113  della
Costituzione,  nonché,  quale  norma  interposta  all’art.  10   Cost.,   in
riferimento all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata ed eseguita con legge 4 agosto 1955, n. 848.

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